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Lo streaming di WarnerMedia, riflessioni sulle subscription e il mondo che cambia sia per i festival che per i videogiochi in Cineguru Matinée #18

Lungo Matinée che arriva dopo settimane di assenza. Ritorno su Facebook Films per poi passare a WarnerMedia e alle novità sul suo servizio di streaming ma si parla davvero di tutto: Disneyland e la galassia lontana, Google, Stadia e Sony e Cannes, cominciando dall’inizio dell’estate di cinema 2019.

Buongiorno e mettetevi comodi. Se riuscirò mai a finirlo sarà un Matinée davvero lungo, sono alcune settimane che accumulo notizie e riflessioni, tanto che ho deciso di saltare una posizione nella numerazione (che sono pure scaramantico) e che alcune notizie potrebbero già essere diventate vecchie nel frattempo. La settimana scorsa avevo quasi chiuso un numero ma poi ho preferito concentrarmi sulla questione della nuova funzionalità Facebook Film e quelli che ho chiamato Cinema Invisibili, su cui torno brevemente più avanti, e quindi ho rinviato ad oggi questa edizione in cui penso ci siano davvero tanti spunti interessanti, cresciuti durante questa settimana.

Inizia l’estate di cinema

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Questo è il primo weekend di questa nuova “estate di cinema” e l’avvio non ha portato risultati entusiasmanti, anche se il confronto con il giugno 2018 è per ora positivo. C’è da dire che nonostante due nuove uscite importanti, non è il fine settimana su cui basare delle previsioni. Veniamo da un maggio invernale, che ha trasformato Greta Thunberg nella regina dei meme sul brutto tempo e indirettamente in una patrona del Box Office (spero che qualcuno a Riccione regali delle mantelle gialle invece che degli ombrelli), e alla fine questo primo vero weekend di primavera finisce con l’essere contemporaneamente anche il primo fine settimana dell’estate, dato che le scuole sono appena finite in molte regioni.

Commentando i risultati con alcuni addetti ai lavori siamo tornati sul discorso che “il prodotto non basta” ricordandoci poi però che questo lo avevamo ben chiaro dall’estate 2017. A me piace sempre fingere di avere un’ampia cultura matematica dicendo che il prodotto è condizione necessaria ma non sufficiente a riempire le sale. Ci sono poi fattori contingenti, il clima per primo o la coincidenza con eventi come i Mondiali di Calcio, su cui non si può intervenire se non tenendosene alla larga. E la sfida dell’estate 2019 è proprio nel non tenersi consapevolmente lontani dal bel tempo per provare a cambiare il terzo fattore, che alcuni chiamano cultura altri più semplicemente le abitudini, due facce della stessa medaglia. Credo sia il caso di ricordare che se questo progetto nasce su un’orizzonte di tre anni è perché le abitudini non si cambiano certo in un weekend, contro cui possono scatenarsi condizioni avverse, e nemmeno in una stagione. Ad esempio maggio ha dimostrato che prodotto e fattori contingenti, il clima, sono condizione necessaria e sufficiente a fare un gran risultato. Il tema è sempre capire se tra tre anni si sarà riusciti ad avere un’impatto tale su cultura e abitudini da rendere l’effetto del clima meno rilevante.

C’è ancora molto da fare, ma comunque in questi mesi abbiamo monitorato i dati social dei principali film in uscita (prossimamente in un articolo) durante questa estate e abbiamo visto che le strategie di lancio hanno prodotto risultati confrontabili con quelli dei titoli di benchmark. Anzi ci sono titoli con performance decisamente “autunnali”, quindi il lancio dei titoli sembra percorrere le stesse traiettorie delle uscite in altri periodi dell’anno, almeno da quanto è possibile rilevare online e in particolar modo sui social media.

Ancora sul perché molti Cinema non sono su Facebook Film nel modo migliore

Il nuovo servizio di Facebook dedicato alla programmazione dei film nei cinema è ora attivo per tutti i film, anche se con qualche bug che stanno risolvendo, e voglio tornare sull’argomento per approfondire su qualcosa che nell’articolo della scorsa settimana ho appena accennato con più di qualcuno che mi ha poi chiesto “come mai Facebook mi discrimina”. Alcuni lo dicevano avendo ben chiaro che non c’è alcuna discriminazione Screenshot 2019-06-08 13.11.32.pngin atto, ma in quanto alla fine dei conti oggettivamente i cinema presenti finiscono con l’esserlo e non è facile capirne le ragioni. Altri pensano davvero di essere esclusi per volontà di non si sa quale entità abbia tutto questo tempo da perdere nell’ordire un piano segreto per escluderli. Vediamo se riesco a chiarire il punto.

Aggregare in servizi come quello di Facebook e il nostro (mi piace ricordare che lo facciamo da anni che loro ora ci hanno raggiunto ;-)) la programmazione dei film non è facile. Bisogna avere i dati ma non basta, perché spesso e volentieri non sono omogenei (per un computer un titolo scritto con il trattino in un posto diverso è un altro film), bisogna conciliare le versioni 3D con quelle normali, e superare tutta una serie di difficoltà che rendono necessario un monitoraggio quotidiano e manuale di questi servizi. Quindi investimenti in tecnologia e personale. Bisogna poi considerare che la redditività di questi servizi, con la programmazione che è disponibile pressoché ovunque anche se di scarsa qualità, è bassissima, tendente allo zero. La combinazione di questi fattori fa si che questi servizi possano essere realizzati solo se le condizioni sono favorevoli, mentre se e quando ci sono troppi ostacoli diventa giocoforza escludere chi non ti facilita il lavoro.

Chiarito questo il punto critico da comprendere è che da quando si parla di internet 2.0 si parla non solo di social, ma anche di modalità di scambio di dati, gli addetti ai lavori le chiamano API, che permettono a siti e servizi diversi di dialogare tra loro e collaborare per un fine comune. Ad esempio Amazon ha API, e non solo, per fare qualsiasi cosa con i loro servizi e quindi io posso vendervi questo prodotto con un paio di click e realizzare un intero negozio basato su Amazon riducendo al minimo il lavoro di sviluppo e manutenzione. Questo vale per migliaia di altri siti e servizi. Le API sono lo strato su cui si è basato lo sviluppo della internet economy degli ultimi 15 anni. E secondo voi i cinema italiani questa opportunità la hanno sfruttata? La risposta alla domanda la conoscete da soli. Le API, o anche qualcosa che potesse assomigliarci, per anni non ci sono state, quando ci sono state alcuni le tenevano gelosamente nascoste, quando non addirittura chiuse. Questo mentre Amazon e altre decine di servizi online sviluppavano ad esempio programmi di affiliazione con cui pagavano delle percentuali a chi vendeva i loro prodotti (comprate quello qui sopra per favore, mi danno la %).

Se mi avete seguito fino a quei dovrebbe essere chiaro che la “discriminazione” è il risultato di una scarsa attenzione di parte del settore per questo tema del tutto analoga a quando era facile sentir dire che “i siti internet non servono a niente”. Quando c’era chi non voleva fare i siti internet si usava convincerli dicendo che era come avere un negozio senza vetrine. Ecco non avere le API è come avere le vetrine, ma tenerle oscurate. Rispetto alle opportunità del digitale alcuni hanno ancora un atteggiamento che più o meno suona come: ho aperto un cinema in mezzo al deserto, tagliato i ponti e le strade che mi collegavano al mondo, messo la contraerea nel caso qualcuno arrivi dall’alto. Mi domando perché non venga nessuno.

Tutti pazzi per le subscription, tutti stanchi delle subscription

Da un post di Mauro Lupi su Linkedin scopro una interessante ricerca  su dodici paesi tra cui anche l’Italia sulla “fine dell’era della proprietà” a favore dei servizi subscription. La ricerca, che si può scaricare integralmente sul sito della società Zuora, parla in generale di tutti i servizi ad abbonamento, dalla musica alle macchine e ai motorini, e quindi non riguarda solo lo SVOD che ci interessa più da vicino, però è interessante trovare una conferma di quanto sia alta la propensione ad aderire a questi servizi.

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Se però da una parte arrivano in continuazione studi a ricordarci quanto sia alta la propensione per gli abbonamenti su tutto, abbiamo però già avuto modo di notare quanto siano alti i churn rate, ovvero i ritmi a cui le persone si cancellano dai servizi e quanto la subscription fatigue sia la vera sfida dei prossimi anni. Il problema non è fare abbonati, ma tenerseli: alla fine bundle, pay-per-view, advertising e più in generale modelli flessibili e combinazioni degli stessi saranno le soluzioni più interessanti. E’ il tema della subscription fatigue di cui abbiamo già discusso. In proposito è appena uscita anche una ricerca di Hub Entertainment Research, più specifica sui servizi SVOD, secondo cui il 25% degli americani non avrebbe spazio per aggiungere un ulteriore abbonamento a servizi come Netflix o Amazon Prime che già occupano il mercato. Non si parla di cinema o serie tv ma negli scorsi giorni un altro “quotidiano” Italiano, anche se solo online, ha fatto partire la sua campagna di abbonamento. Si tratta de Il Post, che ha però scelto una formula che potremmo definire “freemium”: gli articoli restano accessibili gratuitamente a tutti (con la pubblicità) per gli abbonati dei servizi in più e, appunto, una minore invasività della pubblicità. E’ una formula che considero tra le più adatte rispetto ai Paywall adottati dai maggiori quotidiani italiani che, ancor più dei servizi OTT, sono destinati a soffrire della subscription fatigue. Non ci si potrà abbonare a tutto, il futuro è nei bundle o in formule come quella de Il Post. Tornando alle ricerche sono mesi in cui vedremo ricerche che dicono costantemente tutto e il contrario di tutto, troppe subscription, poche subscription, c’è ancora spazio per altri servizi oppure no: penso non ci siano dubbi sul fatto che la somma dei vari servizi SVOD non potrà certo superare il costo degli attuali abbonamenti pay, ma soprattutto temo ci sia già la sensazione che c’è troppa roba in giro. Non c’entra niente con lo streaming, ma c’è anche una ricerca che ci dice che le giovani donne americane vanno al cinema più dei loro coetanei uomini.

Tra i dati interessanti per allargare la riflessione basandosi su numeri in cui mi sono imbattuto ci sono le conclusioni su uno studio sul VOD commissionato dall’autorità britannica di regolamentazione dei media Ofcom riassunti da Variety. Secondo questo studio gli introiti 2018 di Netflix e Amazon Prime sono risultati essere più del doppio dei ricavi dei servizi dei broadcaster tradizionali (NOW TV di Sky, iPlayer della BBC, ITV Hub di ITV, All 4 di Channel 4 e My5 di Channel 5): 1,38 miliardi di dollari contro 669 milioni. Oltre che sul VOD l’articolo pone la sua attenzione sul fatto che una concentrazione altrettanto forte si può ritrovare anche nella quantità di investimenti advertising che ormai transitano solo da Facebook e Google:  i due giganti si spartiscono i 2/3 degli investimenti ADV del Regno Unito.

Screenshot 2019-06-08 16.35.37.pngSe ci sono mercati in cui Netflix e Amazon non faticano a guadagnarsi una leadership ce ne sono alcuni in cui il raggiungimento del successo non è così scontato. Tra questi la popolosa India dove la piattaforma Hotstar, adesso di proprietà della Disney a seguito dell’acquisizione di Fox, ha oltre 300 milioni di utilizzatori ed è il principale operatore video seguito da YouTube. Anche se solo l’1% di questi utenti sono abbonati a pagamento, 3 milioni sono comunque di più di quelli di Amazon Prime e più del doppio di quelli di Netflix che è entrata nel mercato solo un anno dopo l’apertura di Hotstar, e comunque già da 3 anni. Anche se recentemente Hastings ha dichiarato che i prossimi 100 milioni di abbonati Netflix verranno dall’india sembra difficile recuperare in breve l’enorme vantaggio che la Disney si è ritrovata tra le mani acquisendo la piattaforma creata da Star India, un network di 10 stazioni televisive con una library di quasi 30 anni di produzione di film e serie tv in un mercato che sappiamo bene essere affezionato alle produzioni locali e che dovrebbe arrivare a valere 5 miliardi di dollari in subscription nel 2023.

Intanto in italia è boom per i servizi SVOD secondo il Sole 24 Ore

IMG_0031.PNGSe lo scenario internazionale è già un pezzo di strada avanti e vede la sicura apertura entro l’anno di due nuove piattaforme, Disney+ e AppleTV+, da noi i nuovi servizi potrebbero arrivare più tardi e mancano dati certi su cui basare il commento sull’andamento del mercato. Il 6 giugno scorso però Il Sole 24 Ore ha titolato in prima pagina sul boom delle “web tv”, definizione forse un po’ vintage, che si riferisce a servizi nati prima di questa fase in cui si usano più sigle come OTT, Streaming e SVOD, i veri protagonisti del cambiamento in atto. Comunque l’articolo parla di ormai 8 milioni di abbonati ai servizi di streaming a pagamento in base a una ricerca commissionata ad EY da parte di Sky, Discovery e Fastweb.  L’articolo si concentra nella prima parte sull’analisi dei dati Auditel dei principali canali evidenziando come da un anno al successivo la televisione tradizionale abbia perso 341mila spettatori giornalieri medi e soprattutto abbia perso oltre 841mila spettatori medi giornalieri in prima serata. Al di là dei dati di dettaglio su quali canali abbiano retto meglio il calo generale da un anno all’altro, il 3%, viene considerato poco rilevante rispetto a un mezzo che raggiunge comunque oltre 24 milioni di spettatori e rispetto a canali di cui l’Auditel non rileva ancora l’uso sui device, attraverso siti e App che comunque sono ormai presenti anche in quell’ambito. Passando invece al commento della ricerca EY questa prende innanzitutto in considerazione tutte le piattaforme Pay, quindi non solo Netflix e Amazon Prime, di cui ci occupiamo più spesso, ma anche TimVision, NowTV di Sky, Infinity e le sportive Eurosport Player e Dazn. Ebbene pur se con Netflix a dominare (e Prime Video e Dazn sul podio) il totale degli abbonati a queste piattaforme sarebbe salito a 8 milioni a gennaio 2019, per un totale di 11 milioni di utenti complessivi fra abbonati e familiari che li utilizzano. Il totale di chi “nell’ultima settimana ha guardato almeno 10 minuti di contenuti video su internet” includendo anche ic anali free sarebbe, sempre secondo EY, di oltre 22, 6 milioni di persone (contro i 20,9 del 2018) e la somma di utenti free e pay è di oltre 25,8 milioni. Insomma è chiaro che televisione tradizionale e video su internet sono ormai molto vicini. La dieta degli OTT inizia ad essere cara anche nel nostro paese ormai. Per avere un quadro completo del mercato italiano può essere utile l’elenco di tutti i canali tv attivi nel nostro paese pubblicato da Prima Comunicazione.

Disney, futuro prossimo, il ruolo della tecnologia e la Galassia lontana

0-1.jpgL’inaugurazione della prima, faraonica, espansione di Disneyland dedicata a Star Wars, Galaxy’s Edge (a fianco lungo l’articolo due grafici condivisi su Linkedin da Alberto Pasquale che danno un’idea del business dei parchi), è stata l’occasione per il CEO della Disney, Bob Iger, di rinfrescare con un po’ di dichiarazioni e interviste la strategia per il futuro prossimo dell’azienda di Topolino. Iger, che di recente era stato anche attaccato da Abigail Disney per il suo compenso, in una di queste interviste è tornato sul tema di quanto si sia dimostrata disruptive l’innovazione tecnologica rispetto al business dell’intero settore audiovisivo e quindi della società che dirige e di quanto stiano lavorando per reagire, in particolar modo attraverso i servizi di streaming, a cominciare da Disney+. Ha poi enfatizzato quanto abbiano teso a rendere il prezzo del servizio il più possibile accessibile a tutti, tanto è vero che l’annuncio a 6,99$ è stata una delle notizie accolte con maggior favore dopo la presentazione dell’11 aprile.  Una scelta dettata anche dal fatto che il parametro cui presteranno maggiore attenzione all’avvio del progetto sarà il numero netto di abbonati, che è poi la semplice metrica chiave di tutti i servizi ad abbonamento, a cominciare da Netflix che solo di recente ha iniziato a diffondere qualche dato in più su cosa fanno i milioni di abbonati che ha nel mondo. 0.jpgIger vede un futuro di concentrazione delle piattaforme e un ruolo comunque centrale da parte dell’advertising, che al momento Disney copre, tra le altre cose, con Hulu, di cui ricordiamo ha acquisito di recente il controllo completo a seguito dell’accordo con Comcast. Sempre sull’onda dell’attenzione catalizzata dall’apertura della nuova sezione del parco The Motley Fool ha pubblicato un nuovo articolo per tentare di fare il punto sullo stato della trasformazione di Disney e provare a prevedere un futuro a 5 anni. Una lettura interessante, ma un po’ come per le ricerche resta vero che in questo momento storico le testate, soprattutto dei commentatori di borsa, finiscono con lo scrivere un po’ di tutto e il contrario di tutto.  Intanto le conseguenze dell’acquisizione della Fox iniziano a farsi sentire anche in Italia, dato che la scorsa settimana è stato annunciato che Fox Networks si sposterà nel 2020 a Milano, dove la Disney Italia ha ormai da alcuni anni la sede principale.

Il servizio di Streaming di WarnerMedia sarà il più caro?

Poche le indiscrezioni trapelate e le notizie certe diffuse sul servizio di Streaming WarnerMedia fino ad ora e quindi sui piani di AT&T che in questi mesi ha riorganizzato il management e dovuto risolvere alcuni problemi interni più che concentrarsi sul comunicare al mercato i suoi piani futuri. Ora un articolo del The Wall Street Journal, citando delle fonti interne, racconta che il piano della Warner potrebbe essere quello di lanciare il suo servizio, che dovrebbe essere disponibile in una qualche versione beta da questo autunno, con un prezzo compreso tra i 16 e i 17 dollari al mese, il più alto tra quello degli operatori concorrenti, dai 6.99$ di Disney+ ai 16$ che raggiunge il Premium Plan di Netflix su 4 schermi. All’interno di questa piattaforma gli utenti troverebbero insieme HBO, Cinemax e la library di diritti TV e film della Warner Bros., piattaforme che invece si era ipotizzato avrebbero continuato a restare distinte, ma combinabili, in un’offerta che alla fine l’AT&T si sarebbe convinta essere troppo e inutilmente complessa da comunicare. La questione del prezzo comunque è ancora tutt’altro che certa visto che HBO viene distribuita anche da piattaforme partner, prima di tutto Comcast, che potrebbero non gradire la disponibilità di un’offerta del prezioso canale a prezzi troppo competitivi e con cui Warner dovrà tornare inevitabilmente accordi compensativi. In un secondo momento Warner potrebbe lanciare una versione del servizio sostenuta da advertising, trovando così un equilibrio tra il modello SVOD e AVOD. Inutile dire che anche AT&T procede sempre più decisa su questo fronte in conseguenza della riduzione degli abbonati su satellite (soprattutto Direct-TV) e via cavo. Giusto perché le ricerche non mancano mai l’articolo cita comunque una ricerca secondo cui la maggioranza dei cord-cutters sarebbero disponibili ad abbonarsi fino a 6 nuovi servizi per sostituire i loro abbonamenti via cavo, spendendo fino ad un massimo di 38 dollari al mese.

Se da una parte c’è l’offerta commerciale, dall’altra abbiamo imparato che un prezzo non vuol dire niente se non garantisce l’accesso ad una libreria di contenuti sufficientemente interessante per gli utenti. Su questo la ricetta di John Stankey, il chief executive officer dell’area media di  AT&T dal takeover di Time Warner, è quella di produrre più documentari, più film e più serie tv, questo per alimentare una library che deve essere ancora più ricca anche se, unendo HBO, Turner Broadcasting e Warner Bros., Stankey sottolinea quanto WarnerMedia spendesse già in produzione di contenuti più di chiunque altro. Nella sintesi di questa intervista è interessante leggere: “Stankey wants to build an enterprise that can compete for ads with Google and with Netflix for subscribers.” ed è chiaro che sull’evoluzione, anche tecnologica, dell’advertising, ci apprestiamo a vivere una nuova epoca di tempi interessanti. Quindi se da una parte WarnerMedia ha lasciato Friends a Netflix per un altro anno, dall’altro è ben chiara la direzione da prendere, tanto che secondo The Information è pronta a lanciare i nuovi episodi di alcuni tra i suoi più popolari show “via cavo”, come The Alienist, prima sul nuovo servizio di streaming che su TNT.

La focalizzazione sul servizio di streaming emerge prepotente anche da questa storia appena uscita su Bloomberg secondo cui AT&T dovrebbe sempre di più rivalutare l’ipotesi di fondere il suo servizio via satellite  DirecTV con il rivale Dish Network. Pur non essendoci nessuna trattativa formale in corso l’idea è che si dovrebbe perlomeno capire se l’autorità Antitrust USA, che ha già bloccato una volta questa fusione, potrebbe rivedere la sua posizione ora che il business è evidentemente in crisi, visto che come dicevamo prima il cord-cutting è molto più forse sul satellite che con il cavo e i numeri parlano da soli.

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Modelli di business e servizi

Questo lungo matinée mi sembra l’occasione giusta per pubblicare questa inforgrafica che ho salvata sul desktop da qualche mese (tanto che non mi ricordo nemmeno dove la ho trovata) e che tenta di riassumere in un unico schema i diversi servizi che popolano il panorama della distribuzione digitale di contenuti e i loro modelli di business. Tra poco l’infografica diventa davvero vecchia e quindi anche se non mi soddisfa particolarmente meglio condividerla. Nel frattempo ad esempio, oltre agli annunci Apple, Disney, Warner e Comcast, realtà come YouTube e Facebook hanno rivisto i loro piani sulla produzione di contenuti originali, anche perché per chi produce contenuti Facebook Watch si sta dimostrando un vero fallimento.

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E il Festival di Cannes?

L’anno scorso di questi tempi parlavamo tantissimo di Cannes e del suo scontro con Netflix. Quest’anno c’è stato molto meno da discutere e l’atteggiamento del festival nei confronti dei film prodotti direct-to-streaming sembra interessare molto di meno. Forse perché nel frattempo i film Netflix hanno avuto riconoscimenti dall’eco molto più rilevante, fatto sta che più di un articolo di commento a fine manifestazione parlava della difficoltà del Festival nel tentare di restare rilevante a fronte della trasformazione del business.

Il tema dei “film da festival” provenienti da tutte le parti del mondo e spesso da nomi di “registi da festival” che faticano a trovare una distribuzione (anche se paradossalmente Prasite potrebbe diventare la Palma d’Oro dal Box Office globale più alto) è vecchio come i festival stessi e mi ricordo gli anni in cui si diceva che ci sarebbe servita una piattaforma digital per valorizzarli, dato che al cinema non sarebbero mai usciti (cosa che in realtà esiste da tempo, dato che i titoli vengono fruiti attraverso la pirateria dalla nicchia di cinefili che si scandalizza poi del loro non arrivare nei cinema) e paradossalmente ora che di piattaforma ce ne è più di una Cannes si è trovata nella difficile posizione di esserne il più acerrimo rivale. Il presidente di giuria Alejandro González Iñárritu è stato uno dei pochi a tornare sull’argomento, ringraziando in realtà Netflix & Co. per il lavoro di diffusione di opere altrimenti destinate ad arrivare a pochi, troppo pochi in un mondo che sta cambiando radicalmente.

Nel frattempo, come ricorda The Wrap: “i film sono diventati una cosa da super-eroi, il mondo dell’intrattenimento ha spostato la sua attenzione sul contenuto (che una volta avremmo chiamato) televisivo e la sintesi è che la gente con i soldi da spendere era a Cannes per le feste e non per fare business“.

“Some pros are more willing to watch the last episode of Games Of Thrones on an iPad than a Palme d’Or contender at the Salle Lumiere” (Frédéric Corvez, CEO Urban Distribution International)

Anche l’articolo di bilancio della 60ma edizione del Festival di ScreenDaily ruotava intorno agli stessi argomenti. Al di là dell’ironia sul fatto che la domanda più diffusa tra gli addetti ai lavori fosse dove e come vedere l’ultima puntata di Game of Thrones, quasi un sigillo sul tema dello spostamento di attenzione dai cinema allo streaming, il tema è soprattutto quanto le piattaforme di streaming siano diventate protagoniste del mercato rispetto ai tradizionali buyer. Ovviamente le opinioni su quanto questo sia un bene o un male per il mercato cinematografico in generale sembrano variare a seconda di come sono andate le vendite dei singoli operatori nei commenti riportati nell’articolo.

Al di là dei singoli casi lo streaming secondo me continua ad essere una grande opportunità, complementare alla distribuzione cinematografica tradizionale, nemico (dato che ne è il naturale sostituto tecnologico) solo delle pay tv tradizionali e della tv generalista. I film e il prodotto audiovisivo più in generale trova attraverso queste piattaforme la distribuzione puntuale che uno strumento discreto come la sala cinematografica non può garantire. Si tratta solo di trovare l’equilibrio tra le due forme di distribuzione. Non a caso continuo a dire che se fossi una piattaforma mi comprerei di cinema e non a caso Netflix potrebbe aver appena assunto Spencer Klein come responsabile della sua divisione distribuzione.

Da novembre si gioca senza console con Stadia

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Nel presentare gli ultimi aggiornamenti e l’offerta commerciale della sua piattaforma di gioco in cloud dal nome orrendo, Stadia, Google ha confermato che sarà accessibile anche nel nostro paese da novembre ed è già possibile acquistare on founders pack che comprende un pad da gioco e un abbonamento per tre mesi.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=lhcTQSSkdJU&w=560&h=315]

Mi occupo molto poco di giochi ma è chiaro che se nel mondo dell’audiovisivo sta accadendo un terremoto quello dei giochi è di fronte ad una rivoluzione ancora più ampia e repentina, dovuta anche al fatto che i player in competizione, in termini di piattaforme, sono molti di meno. Il passaggio cui assisteremo nei prossimi anni è da un mondo che aveva nell’hardware il suo focus, con Sony, Microsoft e Nintendo a farla da padroni, e avrà invece nel cloud e quindi nell’equivalente dello streaming dei giochi, i suoi nuovi punti di riferimento. Il gioco diventa quindi indipendente dalla piattaforma: si potrà giocare su tutti i nostri device agli stessi giochi e con un’esperienza totalmente coerente, cosa che i ragazzini che in questi anni hanno dedicato la loro vita a Fortnite conoscono benissimo (anche se l’esperienza non è e non sarà mai esattamente la stessa) e che apprezzeranno sicuramente.

La minaccia è così grande e sentita che a metà maggio si era cominciato anche a parlare di una improbabile alleanza tra Microsoft e Sony, che con XBox e PlayStation sono ancora hardware centriche nonostante gli sforzi di passare ai servizi con gli store digitali,  ma la cosa è stata smentita nei giorni scorsi da Jim Ryan, chief executive di Sony Interactive Entertainment, che mentre si prepara a lanciare la nuova generazione di PlayStation e punta su  PlayStation Now ha escluso in una intervista al Financial Times qualsiasi collaborazione con Microsoft.

Sony beneficia probabilmente di un vantaggio competitivo significativo rispetto a Microsoft e può permettersi questa posizione, ma bisogna tenere presente che da tempo si rumoreggia che nello stesso mercato stia per entrare Amazon e un elemento non trascurabile nel valutare l’evoluzione e la capacità di penetrazione di piattaforme provenienti dai due colossi possa avere in YouTube e Twitch due enormi punti di forza. Io intanto ho comprato il founder pack di Stadia e sono convinto che non riuscirò a usarlo più di una volta prima che diventi di esclusivo dominio della figliolanza, che avrà dei tempi di adozione rapidissimi.

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Notizie in breve

Indagini Antitrust bipartisan per la tech USA. Negli Stati Uniti i colossi tecnologici stanno entrando in un periodo che li vedrà sotto l’occhio del ciclone di indagini incrociate da parte dell’Antitrust e più in generale del Governo. Sembra esserci una pericolosa convergenza di intenti da parte sia dei Democratici che dei Repubblicani per porre un freno allo strapotere delle Tech companies, Facebook in testa, tanto che c’è chi, come la Senatrice Warren, ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia, seguita anche dalla giovanissima promessa della politica USA Ocasio Cortez.

Sempre più privacy e difficoltà per l’adv. Non penso che la politica sia interessata alla tecnologia per proteggere la nostra privacy, anzi, ma fatto sta che la tutela della medesima è uno degli argomenti cardine con cui vengono attaccati i colossi tecnologici che da qual punto di vista però potrebbero invece essere un alleato dell’utente, almeno nei limiti in cui uno si fida a lasciare i propri dati ad uno solo di questi operatori. Anche Firefox si è aggiunto di recente alla lista dei browser, Safari di Apple in testa, che tutelano la privacy dei propri utenti. Apple dal canto suo ha fatto della tutela della privacy dei suoi utenti (incassa a sufficienza dalla vendita dei device di non aver bisogno di vendere i nostri dati) uno dei cardini della propria attività e non stupisce che abbiamo presentato all’ultima conferenza degli sviluppatori un servizio di autenticazione Login with Apple con cui sostituirò sicuramente volentieri il mio login via Facebook. Nel frattempo è stata anche lanciata la nuova app Apple TV, prima tappa del cambiamento di focus della Apple dalla Apple TV hardware alla Apple TV software.

Vodafone accende il 5G in Italia, la lotta per le frequenze ucciderà definitivamente la televisione? Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli sono le prime 5 città italiane, e tra le prime in Europa e nel Mondo, ad avere accesso alle nuovi reti 5G che Vodafone ha attivato nella prima settimana di giugno. Con le velocità possibili con queste nuove reti scaricare un film diventa una questione di minuti quando non di secondi, il limite sarà ormai più sulla velocità limitata dai server di partenza delle informazioni e dalla rete in generale che dal collegamento del singolo device. Ovviamente non è una cosa di adesso, ci sono pochi device tra cui scegliere e le città Vodafone dovrebbero diventare 100 nel 2021, ma siamo entrati nell’era della nuova generazione mobile. Nel frattempo negli USA già si pongono il problema dell’affollamento delle frequenze, che diventerà una guerra, dato che le migliori per il 5G sono quelle utilizzate dalla televisione.

Game of Thrones e il nostro Podcast sulle Serie TV. E’ finito Game of Thrones (lo avevo detto che c’erano delle notizie ormai datate) e di come il prossimo fenomeno “televisivo” non sarà più sulle piattaforme pay o via satellite ma figlio delle piattaforme di streaming ho parlato anche nel nostro nuovo podcast dedicato alle serie tv. Si chiama Serial Chiller e lo potete ascolta in diretta il giovedì alle 18 su Sprekaer, oppure con la vostra applicazione Podcast preferita: Serial Chiller su iTunes, Serial Chiller su Spotify, Serial Chiller su Google Podcast e Serial Chiller su Tune In (per Alexa).

Hollywood contro la Georgia. Dopo Netflix, Disney e WarnerMedia, praticamente tutta Hollywood ha via via preso posizione contro lo stato della Georgia a causa della nuova legge sull’aborto, minacciando di spostare le produzioni future in stati con legislazioni meno retrograde.  Anche Spike Lee si è aggiunto al coro di chi condanna la nuova legislazione dello stato, invitando tutti a boicottare la Georgia.

Audimovie e la ricerca sull’andare al cinema. Audimovie ha commissionato una ricerca sull’andare al cinema che cerca di mettere a fuoco l’intera esperienza dello spettatore (di diverse tipologie) sintetizzandola con il sottotitolo molto di più che vedere un film. Il panel su cui è stata condotta la ricerca è forse un po’ troppo limitato, ma la descrizione dell’intera esperienza è sicuramente dettagliata e tra i vari contenuti è interessante questo schema che riepiloga i vari profili dello spettatore.

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Davide Dellacasa
Publisher di ScreenWeek.it, Episode39 e Managing Director del network di Blog della Brad&k Productions ama internet e il cinema e ne ha fatto il suo mestiere fin dal 1994.
http://dd.screenweek.it
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