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L’incerto futuro dei film e di Hollywood dopo le guerre dello streaming. HBO Max si aggiunge alla lista dei nomi in campo. È iniziato il declino di Netflix? Cineguru Matinée #20

Marvel ipoteca il futuro dello streaming (e anche del cinema?) con l’annuncio di una Fase 4 del suo universo cinematico che dispiega in modo evidente la strategia Disney. WarnerMedia annuncia il nome del suo servizio di streaming e NBCUniversal la data di lancio del suo, insieme a molto altro nel Cineguru Matinée più lungo di sempre prima della pausa estiva.

Buona domenica e benvenuti a questo Matinée numero 20. Quando ho dato il via a questo appuntamento domenicale su Cineguru, a fine 2018, mi ero ripromesso di essere costante e realizzarne uno ogni domenica. A luglio inoltrato posso dire di essere stato bravo ma non bravissimo, 20 appuntamenti significano che ho saltato ben più di una settimana, ma non è poi così male, ma avrei potuto fare di meglio.

C’è però da sottolineare che quando ho cominciato c’era tanto da raccontare e da recuperare sul terreno delle guerre dello streaming. Netflix e Amazon Prime a parte tutto il resto era ancora molto fumoso, ma poi le strategie dei vari operatori in gioco sono diventate molto più chiare e il compiersi delle acquisizioni AT&T-Warner e Disney-Fox, così come gli annunci di Disney+, Apple TV+, ed infine (per ora) HBO Max, hanno composto un quadro cui manca soltanto qualche indicazioni più chiara sul prodotto Comcast-NBCUniversal per darci una visione chiara del futuro prossimo del settore. A mano a mano che si veniva a configurare questo scenario le riflessioni domenicali sono diventate spesso ripetitive perché è chiaro che con tutte le armate schierate in campo le guerre dello streaming stanno entrando nel vivo. 1) Tutti i produttori di contenuti hanno pianificato con un calendario tattico il ritorno a casa delle loro proprietà intellettuali principali per sfruttarle esclusivamente sulle loro piattaforme proprietarie. 2) Hanno quasi tutto dichiarato i nomi delle loro piattaforme di streaming, modelli e pricing, e annunciato le date di lancio. 3) Sono state annunciate le principali serie originali in arrivo.

Nel Matinée numero 19 ho anche pubblicato una classifica delle piattaforme in base al potenziale/aspettative del mercato e credo che da dopo l’estate ci concentreremo sempre di più sul guardare quanto questo potenziale inizi a convertirsi in realtà. Il tema sarà innanzitutto la “conta degli abbonati“, terreno su cui Netflix ha mostrato qualche giorno fa un primo, in realtà prevedibile, segno di cedimento.

Personalmente sono convinto da tempo che le parole chiave su cui si giocherà questa guerra solo la subscription fatigue (ci è tornato sopra di recente anche Forbes), la fatica dai troppi abbonamenti, e il bundling, ovvero la capacità di alcuni operatori di unire le offerte delle singole piattaforme in pacchetti da offrire ai loro abbonati, che è poi un ritorno al modello delle TV via cavo/satellite, solo che cambiando la tecnologia di trasmissione cambieranno anche i dominatori del mercato. Andiamo incontro a un periodo di tale eccesso di offerta di contenuti che potrebbe diventare anche un problema la saturazione del tempo libero delle persone, in uno scenario alla Black Mirror (le puntate quelle belle, di prima che Netflix ne sbrodolasse la carica innovativa).

Dopo questo appuntamento numero 20 mi prenderò comunque una vera pausa, nel senso che le altre volte è capitato e ho continuato ad accumulare articoli per il prossimo appuntamento, mentre qui è proprio intenzionale, legato solo in parte alle “vacanze” e sottolinea l’idea di trovare una nuova formula con cui seguire le guerre dello streaming a partire da settembre. Ora vi lascio a questo ultimo appuntamento estivo con la mia raccolta di notizie e riflessioni sul mondo dello showbiz e la sua evoluzione che per quantità di spunti accumulati corre davvero il rischio di essere troppo lungo (confesso, sono solo tre settimane che cerco di finirlo, infatti alcuni argomenti sono vecchi come la parte sullo scetticismo nei confronti dell’estate cinematografica).

Come sopravviveranno i film (come li conosciamo) nei prossimi 10 anni? – La lenta morte di Hollywood

Nelle scorse settimane sono usciti i due articoli più interessanti dell’anno per guardare al futuro del settore audiovisivo con ampio respiro. Il primo è uscito sul New York Times e si intitola, appunto Come sopravviveranno i film (come li conosciamo) nei prossimi 10 anni?, una domanda che qualche anno fa feci a Ed Catmull nel corso di un evento a Milano e che il giornale americano ha potuto fare a ben 24 figure di spicco dello showbiz americano tra cui Ava DuVernayJason BlumOctavia SpencerKumail NanjianiLena WaitheJ.J. AbramsJon M. ChuJessica ChastainElizabeth BanksBarry JenkinsJoe and Anthony Russo. Il secondo invece è un guest post pubblicato sulla versione PRO di The Wrap ed è dedicato alla Lenta Morte di Hollywood per mano della concentrazione e, ovviamente, di Netflix (anche se i problemi sono cominciati prima). I due articoli meritano tutti e due una lettura, anche se sono in inglese e richiedono la registrazione e/o l’adesione a un periodo di prova. Sono lunghi, articolati e approfonditi, e sono davvero tra le cose più interessanti che mi è capitato di leggere quest’anno sull’evoluzione dell’audiovisivo.

L’articolo del New York Times è costruito tutto con le risposte degli intervistati a una serie di domande e parte, chiaramente, evidenziando quanto il settore si trovi nel momento tempesta perfetta del cambiamento. Escono troppi film, c’è troppa offerta senza uscire di casa, come portare le persone fuori al cinema a vedere i titoli non blockbuster per tutti? Queste alcune delle domande che i protagonisti stessi delle interviste pongono nelle prime battute.

We have to be even more selective, because if the audience perceives that it’s something similar to what they have seen on a streaming service or a cable service, it may not rise to the level of theatricality for them.

(NANCY UTLEY)

Nonostante il punto di partenza sia questa preoccupazione di portare il pubblico in sala gli intervistati si dividono poi rispetto all’importanza dell’uscita in sala stessa. Più o meno sono tutti d’accordo nel sostenere l’unicità dell’esperienza in sala…

In the same way that social media approximates the experience of being in a community, I think the way we now watch these things — whether on our flat screens or laptops or phones — is also an approximation of what the original foundations of this medium always were.

(BARRY JENKINS)

… anche se tutti i giudizi si concentrano più sull’aspetto artistico che su quello economico, ovvero sulla redditività della finestra cinema e su quanto questa sia necessaria al ritorno economico del film. C’è comunque un giudizio unanime positivo nei confronti dello streaming, anche a fronte di un probabile declino dei cinema. In particolare la quantità e varietà di offerta delle piattaforme di streaming sembra più adeguata ai gusti del pubblico e non è una cosa che dovrebbe sorprendere più di tanto visto che nel passaggio da un sistema distributivo “discreto”, i cinema, a uno “continuo”, lo streaming uno-a-uno on demand, è chiaro che diventa possibile soddisfare anche il singolo cliente. E’ il bello della coda lunga. Chiaramente gli addetti ai lavori evidenziano anche quando le risorse portate in gioco dalle piattaforme aprano una quantità di opportunità per tutti:

I’ve seen a lot of female filmmakers get opportunities at Netflix and Amazon that they haven’t gotten through the studio system. So I’m very, very happy about the new shape our industry is taking.

(JESSICA CHASTAIN)

A fronte delle maggiori opportunità offerte dalle piattaforme c’è però chi si pone anche, giustamente secondo me, una questione legata alla costruzione del gusto degli spettatori di domani:

I grew up watching “Ghostbusters” and “Gremlins” and “Indiana Jones.” If I had grown up watching YouTube, I don’t know if I would like movies.

(KUMAIL NANJIANI)

Questo è anche uno dei miei dubbi principali. Quando Ed Catmull rispose alla mia domanda dicendo che secondo lui i film avrebbero continuato ad esistere semplicemente perché sono un format narrativo che funziona a me sono rimasti due dubbi: uno è appunto quello relativo al gusto degli spettatori di domani, che potrebbero essere abituati ad un altra forma di racconto per immagini, estremamente frammentato ed estremamente sbrodolato, e che i film continueranno ad esistere se ci sarà un modello di business adeguato a sostenerli e non c’è dubbio che il cinema, con il pagamento degli biglietto, è il modello di business più adatto al film rispetto ad una qualsiasi forma di abbonamento. Ci torneremo su durante l’analisi dell’altro articolo.

La domanda successiva torna sul tema streaming ed Oscar e onestamente l’argomento, tornato di attualità negli ultimi giorni anche da noi per via dei film Netflix a Venezia, mi ha abbondantemente annoiato dai tempi di Roma. Io la penso come la Academy e come il Festival di Venezia: l’Oscar premia i lungometraggi e gli Emmy le serie tv, che i lungometraggi siano più belli al cinema è sacrosanto, ma non è che un film smette di essere tale se proiettato (impropriamente) sullo schermo di un telefonino.

Una delle parti più interessanti dell’articolo riguarda, come anticipato sopra, il pubblico più giovane ed in particolare ci si domanda se in prospettiva la generazione cresciuta con YouTube sarà ancora interessata ai film. Al di là delle battute su YouTube e della pragmatica risposta di Tom Rothman:

Young people don’t go to “the” movies, they go to “a” movie.

(TOM ROTHMAN)

su questo argomento l’intervento più interessante è di Jeffrey Katzenberg che proprio sull’evoluzione del gusto audiovisivo del pubblico moderno sta costruendo il suo prossimo progetto. Quibi è uno dei servizi di cui vorrei parlare da settimane (sono usciti un po’ di articoli sui finanziamenti ricevuti e sui ritardi nel lancio, comunque atteso nel 2020) ed è molto ambizioso perché si propone proprio di inventare nuovi “tagli” di intrattenimento audiovisivo, adeguati al gusto delle nuove generazioni.

What Quibi is trying to do is get to the next generation of film narrative. The first generation was movies, and they were principally two-hour stories that were designed to be watched in a single sitting in a movie theater. The next generation of film narrative was television, principally designed to be watched in one-hour chapters in front of a television set. I believe the third generation of film narrative will be a merging of those two ideas, which is to tell two-hour stories in chapters that are seven to ten minutes in length. We are actually doing long-form in bite-size.

(JEFFREY KATZENBERG)

C’è poi una domanda cui l’articolo risponde poco o niente, ovvero quanto tutto questo sia finanziariamente sostenibile, ma non c’è na risposta nelle poche battute riportate (mentre c’è nell’altro articolo citato appunto) anche se tra le righe delle risposte di J.J. Abrams (qui l’intervista integrale) e Jason Blum (intervista integrale) c’è più che qualcosa di interessante.

As uncertain as everything is, there’s probably never been a better time to be a creative person in this business, just because of the near-term demand for programming. It’s going to require great stories for these platforms to survive and get attention.

(J.J. ABRAMS)

I make a show for Apple. They sell a million more phones — how are you ever going to connect those two things? With Amazon and Apple, they don’t ever have to be just in a profitable business on movies and TV shows. That’s crazy! And it makes people go nuts, because people have worked so hard to put a business model around content, and now they’re competing with people who don’t need to make that profit.

(JASON BLUM)

Proprio il punto evidenziato della risposta di Jason Blum, del fatto che gli Studios si trovano oggi a competere con gente che non ha bisogno di fare profitti, è il trait-d’union migliore con l’altro articolo di cui volevo parlare, quello sulla lenta fine di Hollywood, a firma di Matt Stoller che non a caso si occupa di antitrust e ha in uscita questo autunno un libro dedicato alla lotta tra i monopoli e la democrazia. Di questo articolo ho già anticipato qualcosa su Facebook qualche giorno fa e parto proprio da quello che ho già scritto per evidenziare qualche altro punto interessante.

L’articolo sovrappone la storia dell’evoluzione recente di Hollywood con quella dell’evoluzione di Netflix e sottolinea quanto la concentrazione stia avvelenando l’industria cinematografica nell’indifferenza delle autorità antitrust.

Per una volta non si parla di Netflix come nemico del cinema, ma del male che il modello di Netflix sta facendo all’industria tutta, che poi è un caso particolare della più ampia ondata di indagini antitrust che sta per abbattersi su tutti i colossi internet americani.

Un passaggio chiave dell’articolo è proprio quello che si collega alla risposta di Blum citata più sopra. Anche se lui si riferisce in particolare ad Apple e Amazon come aziende che non hanno bisogno di fare margini in questo business il ragionamento si applica anche a Netflix.

Netflix is taking inputs and combining them into something that is of less value than those original inputs. But the company doesn’t really care if people watch its content, because it doesn’t sell content. The company is selling a story to Wall Street, that, like Amazon, it will achieve dominant market power. The story is that users will buy Netflix streaming services and it will be too much trouble to switch to a different service, which is a variant of a phenomenon called “lock-in.” So no one will be able to compete, the company will be able to raise prices and lower costs, and voila, another Amazon-style monopoly.”

(Matt Stoller)

Se da una parte Apple e Amazon non devono preoccuparsi di fare utili stiamo dicendo da mesi che nemmeno Netflix ha quella come preoccupazione (almeno fino a quando il numero dei suoi abbonati continua a crescere come vedremo nel prossimo capitolo di questo Matinée omerico), in quanto il suo obiettivo attuale è legato alla storia che sta raccontando alla borsa. Netflix non vende biglietti al cinema e non vende nemmeno contenuti ai suoi abbonati ma, come tanti altri ad essere sinceri, vende una storia agli investitori e se rileggiamo tutta la storia recente delle guerre dello streaming (ma più in generale dell’ascesa di tante delle aziende che oggi dominano il mondo a seguito della cosiddetta disruption portata dall’avvento di internet) alla luce di questa premessa e delle sue conseguenze vengono fuori conferme ad alcune tra le peggiori paure accumulate in questi anni sulla lenta morte di Hollywood (e non solo). La lettura dell’articolo è molto interessante e bisogna però anche stare attenti a non cadere nell’eccesso opposto che significherebbe, in buona sostanza, negare il ruolo della borsa e degli investimenti stessi come motore di innovazione.

Comunque la tesi di fondo dell’articolo è dichiarata fin dall’inizio: siamo abituati a raccontare le guerre dello streaming come ad un qualcosa basato solo sulla tecnologia (e sul contenuto bisognerebbe aggiungere), ma nella storia ha anche un ruolo importante l’assenza della politica nel gestire la concentrazione delle aziende e permettere l’abuso di poter di mercato. Una considerazione che, come dicevo, acquista sempre più peso e popolarità negli Stati Uniti sull’onda di una convergenza bipartisan sancita alla fine dello scorso maggio e che se vogliamo essere sinceri è iniziata riguarda più Facebook che Netflix e tutti gli altri. Ma torniamo all’articolo. L’autore comincia puntando l’attenzione ad una parte che ha ricevuto forse meno attenzione delle altre di un altro interessante post pubblicato da The Information sul cambiamento di paradigma di spesa per i contenuti chiesto da Ted Sarandos durante un incontro tenutosi a giugno. La sintesi che tutti abbiamo fatto di questo approfondimento è stata più o meno “ora che sta arrivando la concorrenza Ted ha chiesto di spendere meno soldi per le produzioni” i più onesti hanno anche aggiunto “pure perché non è che vi vengano fuori tutti questi capolavori”. Il problema è che il parametro su cui sembra ci debba essere la massima attenzione è la produzione di contenuti che “portino dentro nuovi abbonati”, tanto che l’autore punta l’attenzione in modo particolare su un passaggio:

Netflix’s metrics-driven approach shows up in other ways. For instance, it now routinely ends shows after their second season, even when they’re still popular. Netflix has learned that the first two seasons of a show are key to bringing in subscribers—but the third and later seasons don’t do much to retain or win new subscribers. Ending a show after the second season saves money, because showrunners who oversee production tend to negotiate a boost in pay after two years. 

La Stranger Things che abbiamo appena visto sarebbe quindi una di queste rare eccezioni (nota bene che rispetto al frammento citato l’articolo è stato aggiornato con un commento che nega che Netflix abbia una policy che preveda la cancellazione dopo due stagioni) in cui il valore della serie supera i suoi costi perché porta nuovi abbonati e di sicuro trattiene quelli esistenti. Se per molti questo processo è del tutto naturale, anche perché Netflix sta realmente producendo moltissimo e non certo solo capolavori, per l’autore dell’articolo di The Verge questa è una prova di una “malafede” di Netflix che si può permettere di fare determinate scelte anche se solo per risparmiare (non far fare agli showrunner le stagioni successive alla seconda ad esempio) curandosi poco o niente di un pubblico “assuefatto” e pronto a passare ad altro e concludendo che:

Netflix executives believe that the public will tolerate monopolistic market structures.

MATT STOLLER
Andamento al Box Office di Back to the Future

Per sostenere la sua tesi l’autore prosegue con una analisi di come funzionava Hollywood ancora negli anni ’80, in un’era che era figlia della “rottura” dello Studio System. Per farlo prende in considerazione l’esempio dell’uscita di Back to the Future, ricordando la sua lunga tenitura (grafico qui sopra) e rammentandoci di un’epoca in cui più o meno anche da noi andava così e un film non si gicoava tutto nel suo primo fine settimana nei cinema:

In other words, “Back to the Future” was put into a “market,” where information circulated among buyers and sellers before buyers bought. Critics played a role in supplying this information, as did word of mouth from viewers, who told one another about how exciting and fun the movie really was. Theater owners also exchanged information about what was selling and what wasn’t. […] The structure in which “Back to the Future” was released was a result of different public policy choices.

Il sostanza secondo l’autore dell’articolo il benessere dell’industria cinematografica di quegli anni (così come di quella televisiva, che aveva vissuto un analogo processo di frammentazione forzata negli anni ’70) era dovuto tra le altre cose ai benefici di lungo termine di una sana politica antitrust. Poi tra gli anni ’80 e 90′ è ricominciata la concentrazione degli Studios e anche delle catene dei cinema e dei cinema stessi, con l’avvento dei multiplex che hanno cambiato the art of moviemaking.

The original theory of putting 25 screens in one location was that a single theater could play every film in the marketplace at that time. Instead, theater operators are choosing to play mostly the biggest hits on several screens, with new shows beginning every 20 or 30 minutes.

TWSJ

Ora si potrebbe stare qui ore a discutere sul se sia nato prima l’uovo o la gallina, quindi se alla fine la nascita dei multiplex sia stata una causa o una risposta ad un problema di efficienza distributiva, ma sta di fatto che è proprio in questi anni che la distribuzione è cambiata per sempre e i primi fine settimana sono diventati così critici per il risultato finale di un film.

In other words, “Back to the Future” was a good bet in 1985, because a great original film could compete in an open market. But that began changing in the 1990s. And today, there is no such market, because distributors have so much more power. Because you break through their bottleneck only with a brand so strong-like Marvel or Star Wars-the biggest studios with the most branded content have accumulated massive amounts of power.
Today, “Back to the Future” might still be a success if it were released as it was created, but in all likelihood, studio heads would no longer greenlight such a movie in the first place.

Le commedie sono il genere che ha sofferto di più questa trasformazione. L’autore fa notare come tranne alcune rare eccezioni successive a The Hangover dal 2012 non ci sia più stata alcuna grande commedia. Il pubblico non se ne è accorto perché siamo in piena epoca di peak tv, ma si tratta di un genere che al cinema non ha trovato più sbocchi.

Più in generale, quando sarà passata la bolla ora accentuata dalle guerre dello streaming, la minaccia è di ritrovarsi di fronte ad un settore indebolito find alle fondamenta, con il compenso degli scrittori sceso pesantemente negli ultimi 24 mesi.

E qui l’autore torna a concludere il suo articolo parlando di Netflix che non solo sta centralizzando produzione e distribuzione (e portando di nuovo dei film a Venezia aggiungo io con ironia) ma anche deliberatamente perdendo soldi. Quindi mentre l’industria audiovisiva doveva far tornare i conti, vendere biglietti, Netflix invece racconta alla borsa la storia di cui parlavamo all’inizio, preoccupandosi poco o niente di far tornare i conti: i film e le serie non devono vendere niente, devono accontentare gli inerti spettatori esistenti e soprattutto portarne di nuovi, magari grazie all’aiuto di una comunicazione azzeccata. Che poi è un concetto speculare a quello che vado ripetendo da mesi a chi tenta di confrontare le view, comunque siano calcolate, di un servizio SVOD con i biglietti del cinema. E qui arriviamo al punto chiave dell’articolo:

To sell this story to investors, the company is interested only in adding subscribers, resulting in a set of choices whereby it underpays creators, and under-delivers for existing subscribers. And it still burns through money, but it can do so as long as it can sell its debt into the marketplace and its stock remains high. This creates an impossible burden on anyone who wants to make art and sell it in competition with Netflix, be that person an artist or a major studio; it’s simply impossible to compete at making better goods and services if your competitor can lose money indefinitely. Again, artists don’t notice this problem, because they like selling to Netflix. But they will notice, as Netflix’s strategy of underpaying them becomes more obvious.

Insomma, Netflix sta facendo più male al settore di quanto pensiamo, compromettendone non tanto la struttura oggi, quanto ipotecandone il futuro e in questo processo è in buona compagnia insieme ad Amazon e secondo l’autore anche a Disney, più avanti degli altri nelle guerre dello streaming. L’ultimo baluardo a difesa della rifondazione dello Studio System è il Paramount Consent Decrees del 1948 che impedisce a Netflix o Amazon (così come agli altri studios) di acquisire dei cinema, cosa che porterebbe secondo l’autore alla fine di Hollywood e dell’industria dell’intrattenimento.

The net effect is higher prices, less pay to artists, a less creative industry, and ultimately, the death of the Hollywood ecosystem of storytelling.

La conclusione dell’articolo è che è possibile salvare Hollywood, lo storytelling e soprattutto le commedie attraverso una nuova regolamentazione che ripristini la separazione tra produzione, distribuzione e retail e che frammenti le grandi catene ma, devo essere sincero, mi sembra la parte meno convincente dell’articolo. Salvare Hollywood non significa più salvare il mondo dell’intrattenimento su scala globale anche perché salvare il cinema (o la produzione tv) non significa per forza di cose salvare l’intrattenimento che potrebbe venire, un domani, da ben diverse modalità di traduzione della creatività e dell’arte. Non sostengo con questo che più incisive politiche antitrust non dovrebbero intervenire sullo strapotere di alcune delle società, ma che forse quello dell’intrattenimento è uno dei casi meno preoccupanti. Anche perché…

Netflix al giro di boa?

Trend degli abbonati Netflix

Il grafico pubblicato da Datamediahub sull’andamento della crescita degli abbonati di Netflix riassume per bene la battuta di arresto che il gigante dello streaming ha avuto nel secondo trimestre 2019. Un pericoloso appiattimento che, se consolidato nei prossimi mesi (anche se è difficile vista l’uscita delle nuove iterazioni di serie importanti come Stranger Things e La Casa di Carta), potrebbe davvero segnare una svolta nello storytelling della tanto temuta azienda di streaming. Sicuramente il lancio della terza stagione di quella che è diventata la serie simbolo della capacità di Netflix di intercettare i gusti del pubblico più in target con la sua anima ha avuto un enorme successo sia comunicato con l’usuale parametro di view che confermato da fonti esterne, migliorerà, insieme al contributo di altre serie lanciate in questo terzo trimestre, i dati, ma bisogna davvero vedere se non si sia giunti ad un punto di saturazione del mercato americano. Non credo che sia già un effetto di una concorrenza che deve ancora diventare realmente operativa (anche se continueremo a vedere ricerche che confermano l’ovvio, ovvero che sono in tantissimi a volersi abbonare a Disney+), né di una perdita di show (Friends, The Office) che sono ancora in piattaforma. Più probabilmente è la produzione di contenuto originale che in media non raggiunge gli obiettivi attesi (e su questo il ragionamento su una maggiore attenzione al budget di produzione in relazione agli obiettivi non fa una piega) ma è chiaro dai dati che Netflix ha perso troppi abbonati negli USA, una perdita non compensata da una crescita internazionale che, come dimostra la mossa in India, è stata forse data troppo per scontata.

Sul fee Linkedin di Alberto Pasquale ho trovato questo grafico della Nilsen che riassume a colpo d’occhio il problema di contenuti cui sta andando incontro Netflix con la perdita degli show storici di altri brand e, mi viene da dire, senza che le sue serie diventino dei classici. Sempre su Linkedin l’Avvocato Davide Rossi paragona Netflix e lo SVOD all’All you can eat

Netflix – forse – non fallirà ma non farà in tempo ad essere un vero successo in tutto il mondo.

Ho studiato un po’ la cosa, raccogliendo dati e facendo riflessioni; alla fine penso che lo SVOD ha creato una strana bulimia di contenuti destinata a placarsi.

Lo sport della ‘maratona di serie TV’ passerà di moda e alla fine le stesse serie – che pure sembrano fatte benino – stuccheranno.

Torneranno a piacere i film e saranno venduti ‘in transazionale’, cioè uno alla volta.”

Davide Rossi

Non sono del tutto d’accordo, in particolare sul fatto che si tornerà del tutto al transazionale. Secondo me al di là dell’anomalia del momento lo SVOD resta una formula adatta allo sfruttamento di una library, ma non delle nuove uscite, per le quali non garantisce tra l’altro un ritorno economico sufficiente. Penso che con il tempo andremo verso una formula SVOD per le library, con un premium price per le nuove uscite di rilievo, che è poi quello che nella sostanza va già palesemente a fare Disney quando annuncia la fase 4 di un Marvel Cinematc Universe totalmente integrato tra cinema e piattaforma, come un’opera unica, dove il premium price viene pagato, per ora, a fronte dell’uscita al cinema. Se potesse Netflix si sarebbe già comprata più di un cinema a conferma di questa teoria e comunque, prima o poi, quando non le servirà più raccontare la storia che racconta oggi, introdurrà anche lei un’offerta con l’advertising.

Parlando di advertising non bisogna dimenticare che da ragionamento sul rallentamento della crescita di abbonati Netflix non va sicuramente escluso il tema del pricing. Che la piattaforma stia sperimentando l’elasticità della sua domanda al prezzo è sicuro e chiaramente, nonostante le convinzioni di chi si occupa di antitrust, il rapporto tra quanto pago di abbonamento e i “programmi su misura per me” è un punto critico di rottura.

Al Comicon Netflix ha presentato The Witcher con grande entusiasmo tanto che Wired arriva a dire che potrebbe essere il prossimo Game of Thrones e ne è sicuramente convinta la showrunenr Lauren Schmidt Hissrich:

“What’s great about The Witcher is that it’s so much more than a fantasy,” “You’ll get your monsters; you’ll get your magic; you’ll get sorcerers and sex and violence. Yes, there’s sex. Everything you want. But really it’s really a story about a family.”

Ma sappiamo bene quanto le PR di Netflix siano brave, perché visto il trailer mi ha fatto sorridere quanto i commenti fossero discordanti, come evidenzia il post di Anonio Moro che cito più sotto.

Sempre + Disney +

Chi è uscito da Comicon con un’idea di potenza inarrestabile è stata invece la Disney che nell’annunciare la prossima fase, la 4, dell’universo cinematografico Marvel ha messo sullo stesso piano, integrate in una unica timeline, le serie che andranno su Disney+ e i film in uscita al cinema (e dopo in piattaforma). Al di là del sapere bene cosa questo dispiego di forze può significare per il Box Office (e mancano ancora gli annunci del D23 da cui tutti ci aspettiamo annunci relativi a X-Men e fantastici 4) è chiaro che vedere così dichiarata e presentata la strategia di contenuti Marvel coerente per Cinema e Streaming spazza via i residui dubbi, per chi ancora ne avesse, sul futuro della piattaforma Disney+.

Sullo strapotere Disney una settimana fa Alberto Pasquale si domandava su Facebook se moriremo tutti disneyani.

Però c’è da chiedersi cosa sia diventato lo spettacolo cinematografico, quello fruito in sala. È sinonimo di supereroi + animazione + horror? Forse, più semplicemente, è sinonimo di spettacolarità. Perché cinema è sinonimo di big screen.

Warner Media e HBO Max

Il 9 luglio, con un comunicato ufficiale, WarnerMedia ha finalmente annunciato il nome del suo servizio di streaming, che si chiamerà HBO Max.

Anchored with and inspired by the legacy of HBO’s excellence and award-winning storytelling, the new service will be ‘Maximized’ with an extensive collection of exclusive original programming (Max Originals) and the best-of-the-best from WarnerMedia’s enormous portfolio of beloved brands and libraries

WarnerMedia Press Release

Con l’annuncio del nome del servizio di WarnerMedia, che personalmente ho apprezzato tantissimo perché coerentemente col pricing anticipato punta sul suo brand top HBO e almeno non ci si limita ad aggiungerci un + (e su cui At&T vorrebbe trasmettere anche dello sport), allo schieramento di giganti che combatteranno le guerre dello streaming manca ormai soltanto Comcast-NBCUniversal, con il CEO di NBCUniversal che ha però confermato qualche giorno fa un lancio pianificato per l’aprile 2020.

Quindi ci siamo, come preannunciava qualche giorno fa The Verge finisce (per il consumatore) l’era d’oro dello streaming:

It certainly feels like the golden era of streaming is coming to a close, and in its place we’re about to enter a very fragmented — and expensive — world of entertainment.

The Verge

Un pensiero condiviso anche in un commento di Roy Menarini a un post di Robert Bernocchi e approfondito in questo articolo di Giammaria Tammaro.

Il cinema gratis

Domenica 7 luglio 1.800 parigini hanno potuto godersi un film comodamente seduti su delle sdraio (molto estive come sedute, un concept che mi è molto caro) nello scenario davvero unico degli Champs-Élysées di Parigi grazie all’iniziativa del comune Un Dimanche Au Cinéma, tra gli sponsor la famosa marca di gelato Häagen- Dazs. Come ha scritto giustamente Paolo Protti nel post che cito qui sotto sicuramente un grande SPOT per il Cinema, come solo i francesi sanno fare.

Tra l’altro tra l’estrazione per poter essere tra i fortunati partecipanti, la votazione per scegliere il film da proiettare e la copertura mediatica un evento che avrà generato sicuramente un importante media value.

Anche se la visione del film era gratis, come ha anche fatto notare Paolo tra i commenti, penso che dovrebbe essere evidente la differenza tra una iniziativa di questa portata e unicità e il valore promozionale che ha ed altre più discutibili iniziative di cui si dibatte in questi giorni e su cui tornerà presto anche Robert con una sua riflessione. Tra l’altro pensando al cinema d’estate e al rapporto che ha con le arene non posso non pensare al grande lavoro portato avanti dal Teatro dell’Opera di Roma con il programma delle Terme di Caracalla (e immagino ci saranno iniziative analoghe in altre città) in cui un contesto unico viene utilizzato come leva per avvicinare un pubblico anche diverso senza abusare dei termini “educazione” e sicuramente non “gratis”.

Sul tema del cinema gratis segnalo questo articolo di Robert pubblicato qualche giorno fa.

L’ottimismo dell’Estate al Cinema 2019

Proprio nei giorni in cui si svolgevano le Giornate di Cinema di Riccione pubblicavamo la nostra analisi sull’andamento delle prime quattro settimane estive (come la misuriamo noi) e del mese di giugno. Sottolineo “come la misuriamo noi” perché con Robert utilizziamo questo particolare intervallo da ben prima dell’esistenza del progetto triennale per il rilancio della stagione estiva o del cosiddetto, come lo ho sentito chiamare da mio padre da quando riesco a intendere, problema dell’allungamento della stagione. Faccio questa precisazione perché non vorrei che Cineguru fosse aggiunto all’elenco degli “scettici” nei confronti di un progetto che abbiamo accolto con grande entusiasmo, a tratti anche troppo, e che continuiamo a supportare in ogni modo.

Chiarito che non siamo tra gli scettici e meno che mai tra i pessimisti, visto che da tempo non sospetto auspichiamo anche noi la necessità di una maggiore distribuzione di prodotto durante tutti i mesi dell’anno e tanto che nel 2017, quando di prodotto ce ne è stato, piangevamo pensando a quanto i deludenti risultati di quella estate avrebbero potuto compromettere il futuro, è però vero che qui su Cineguru cerchiamo di fare analisi e le analisi hanno il grande pregio di basarsi sui numeri ed essere quindi non soggette a pessimismo, ottimismo o scetticismo.

I dati sono dati, soprattutto quelli di Box Office sono poco opinabili, poi è nel modo che ognuno ha di leggerli e interpretarli che può subentrare l’opinione che in quanto tale è soggettiva, ma sul dato pochi dubbi ci sono. Lunga premessa per dire semplicemente che non c’è alcuno scetticismo, meno che mai nei confronti di questa estate, nell’usare da anni come periodo di riferimento per l’estate 11 settimane che iniziano con il primo giovedì di giugno perché, come ha spiegato Robert:

In questo modo abbiamo un periodo omogeneo, perché questo permette di avere sempre lo stesso numero di giornate forti (sabato e domenica) per ogni confronto, altrimenti si rischiano paragoni non omogenei. Inoltre, il periodo preso in considerazione permette di concentrarci esclusivamente sui momenti ‘caldi’ che rappresentano l’estate, intesa come periodo che vogliamo e speriamo tutti cresca maggiormente, non considerando quindi il penultimo e ultimo weekend di agosto, che è ormai la data migliore dell’anno per i film family.

Il dato oggettivo è che anche considerando il nostro più circoscritto periodo di riferimento l’estate 2019 sta funzionando, invertendo una tendenza che dopo il 2017 non pensavo sarebbe mai stato possibile invertire. E’ tanto oggettivo questo dato quanto quello dichiarato dalle associazioni e dagli stimati colleghi di Box Office che però hanno deciso di prendere a riferimento per la loro analisi un periodo differente che porta il risultato anno su anno a un +30% e in tutta onestà non mi sento dire che ci sia niente di sbagliato in quel riferimento in quanto, se vogliamo dirla tutta, l’estate cinematografica (almeno in termini di crollo degli incassi) da qualche anno a questa parte, 2017 compreso, cominciava già dai primi di maggio, con già qualche vittima illustre del primo weekend di primavera. La scelta di diversi periodi di riferimento che però chiamiamo tutti “estate 2019” per brevità può creare qualche fraintendimento, ma basta approfondire per aver chiaro che stiamo parlando di estati definite in modo leggermente diverso e con questo si spiega tutto. Tra l’altro nessuna delle due definizioni corrisponde, per evidenti motivi, a quella delle stagioni solari. Noi guardiamo al “cuore dell’estate”, i mesi che sono senza dubbio i più caldi, con le scuole chiuse, e che si chiudono prima di date con uno storico di grandi incassi. Le associazioni considerano un periodo più ampio, che include i titoli che in un modo o nell’altro sono stati messi al servizio del progetto. L’importante è che, comunque misuriamo l’estate, una volta preso un riferimento quel riferimento rimanga omogeneo nel tempo, in modo da poter giudicare l’andamento della stagione durante i prossimi anni.

Passando dal dato oggettivo all’interpretazione dei numeri penso che questa estate stia andando bene. Anche se alcuni dei titoli su cui si puntava hanno raggiunto risultati al di sotto di aspettative, forse commisurate su uscite in altri momenti dell’anno, non ricorderemo mai a sufficienza quanto i due titoli family usciti a giugno si siano trovati rispettivamente a doversi confrontare con quello che è stato contemporaneamente il primo weekend di primavera e d’estate dell’anno e con il weekend più caldo degli ultimi 10 anni. Inevitabile che i film per famiglie abbiano sofferto di più, nonostante il confort opportunamente pubblicizzato dai cinema.

Qui si apre un altro tema importantissimo che chi analizza i dati non dovrebbe mai dimenticare: i film non sono tutti uguali e, siccome l’Italia rimane oggettivamente stretta e lunga, il clima continuerà ad essere un elemento determinante nel consumo di cinema. Lo ripetiamo con alcuni addetti ai lavori fin dall’inizio di questa avventura: i fattori che possono cambiare l’estate cinematografica italiana sono film, clima e abitudini. I film ci “capitano”, si può solo decidere di metterli in quelle date ma non cambiare il loro appeal (almeno fino a quando il cinema italiano non comincerà a produrre qualcosa pensato per l’estate). Il clima lo subiamo. Le abitudini, per definizione, diventano tali solo con il tempo. Allora è chiaro che dati almeno due film forti “capitati” in questo giugno, dal punto di vista climatico è stato forse il mese peggiore che ci potesse capitare: una tremendamente calda primavera/estate, capitata al termine di un maggio invernale, che rende questo periodo in un riferimento che non può essere considerato sicuramente “la norma” rispetto al passato, anche se Greta potrebbe dirci che se continua così lo sarà per il futuro.

Al di là di questo l’analisi dei dati potrebbe anche portarci a un’altra riflessione se non fosse che il fattore clima pesa troppo nella valutazione e non ci fossero dati, come ad esempio proprio il risultato del precedente Toy Story, che il periodo è meno ottimale di quello che la chiusura delle scuole farebbe ipotizzare per i film family. Però ripeto, Toy Story 3 è uscito d’estate si, ma era una estate più inoltrata di questa e anche in questo caso è veramente forzata la ricerca di una regola generale.

Le uscite di Annabelle 3 e soprattutto di Spider-Man – far From Home fanno ben sperare sul proseguimento di questa estate al cinema. La primavera è passata, il caldo è un dato di fatto, le fughe in massa al mare potrebbero aver già stancato in vista delle ferie prossime venture, i film che si rivolgono a un pubblico più generalista che resta in città potrebbero davvero andare bene. In particolare uno Spider-Man: Far From Home che già sembrava avere più potenziale del suo predecessore e che la visione conferma essere un perfetto “chilling movie” trova in questo luglio una collocazione ottimale. Una ventata di aria fresca cinematografica, trasversale, divertente, sorprendente, insomma una visione che dovrebbe rendere felice estivo e rispetto alla cui uscita il clima non può che andare peggio, ovvero siccome più caldo di così’ non può fare può solo piovere. Dopo Spider-Man l’altra uscita determinante per capire se il pubblico risponde all’invito (dei film) ad andare al cinema d’estate -non si può cambiare le abitudini in una stagione, ma si può testare la reattività della domanda all’offerta- è l’uscita di Hobbs & Shaw a inizio agosto. Una data già esplorata in passato, ma rispetto alla quale non è possibile trarre conclusioni statistiche coerenti, in cui Universal ha collocato un titolo con un grandissimo potenziale. Chiuderemo l’estate con Il Re Leone (il cui risultato conterà nella “nostra” definizione di estate solo per il primo giorno) ma in quel caso la data sicuramente estiva ha uno storico di grandi risultati.

Niente scetticismo quindi, almeno non sulla necessità e bontà dell’iniziativa e nel vedere tutto il settore compatto intorno al Sottosegretario Bergonzoni, che ha saputo dare concretezza al progetto polarizzando tutta la filiera intorno all’obiettivo comune di dare al Cinema la continuità di cui ha bisogno, perché l’on demand non va in vacanza e il Cinema sul grande schermo ha bisogno soprattutto di lavorare su una efficienza distributiva, di capacità di far incontrare domanda e offerta, che ancora non c’è.

Qui sotto l’andamento dei titoli dell’estate in una nostra infografica.

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PS: ho scritto questa parte di Matinée subito dopo le Giornate di Riccione solo che è rimasto in bozze durante tutta la lunga stesura di questo lunghissimo episodio della rubrica. Nel frattempo siamo arrivati alla settima settimana d’estate ed è uscito anche MIB International di cui valuteremo lunedì il contributo all’estate, attesa dell’arrivo di Hobbs & Shaw.

In breve

a) Google lancia un nuovo social media, ma per come è descritto non nutro molta fiducia in questa storia dei lacci delle scarpe. Dopo Twitch un’altra piattaforma dedicata allo streaming dei gamers minaccia uno dei contenuti principi di YouTube. b) Si chiama Caffeine e un articolo di The Wrap elenca le 4 caratteristiche irrinunciabili per vincere in questo business: 1) bassa latenza; 2) un potente motore di raccomandazioni; 3) contenuti esclusivi e partnership con celebrità; 4) pensare “out of the box”, ovvero fare cose che i tuoi competitor non fanno. Non mi paiono considerazioni particolarmente geniali. c) The Information si domanda se con Alexa la voce sta o meno diventando “the next big thing after mobile” e la risposta per adesso è un sonoro “no”. Però secondo me è un po’ troppo presto per rispondere. Alexa e le sue colleghe sono ancora abbastanza sceme e stanno palesemente imparando, visto che ci ascoltano 24 ore su 24, anche mentre dormiamo, accumulano un’infinità di informazioni, ci metteranno un po’ a stupirci davvero ma penso che ci troveremo davanti qualcosa di molto simile a Her. d) Continua l’agonia di MoviePass (e la presa in giro dei suoi abbonati) dato che il funzionamento dell’applicazione è stato sospeso in attesa di un aggiornamento dell’applicazione attraverso cui eroga il proprio servizio. e) Un bell’articolo de Linkiesta racconta del declino di Mediaset, da innovatrice a televisione dei vecchi. f) Parlando di produzione di contenuti alternativi, guardatevi i video di So Yummy, 16 milioni di views in media. f) Snapchat ha ripreso a crescere e il suo titolo non sta nemmeno andando così male. g) Ho parlato troppo poco di Quibi, che è sicuramente uno dei trending topic ad Hollywood: fare business con i corti è veramente dura, la soglia di indifferenza con il contenuto gratis è troppo bassa, ma con la formula subscription potrebbe avere senso. Ne parleremo comunque in futuro. h) I Millennials sono più lenti di noi vecchietti a scegliere uno show da guardare in streaming, ci mettono 10 minuti mentre gli adulti ce ne mettono 8. Premesso che in 8 minuti io già mi sono addormentato penso che dobbiamo definitivamente metterci d’accordo sull’età dei Millennials. i) Un interessante articolo sulla fatica che sta facendo Amazon a lasciare il segno ad Hollywood nonostante i suoi investimenti che non sapevo proprio dove mettere. l) Altro articolo che non sapevo dove mettere ma che, come dice il titolo, sarebbe opportuno non dimenticare nel momento in cui Netflix dice di voler cominciare a spendere meno per la produzione. Sembra che Apple spenda una media di 15 milioni a puntata per i suoi show, una cifra che chiude il cerchio con le dichiarazioni di Blum a inizio del post e da incubo per qualsiasi sostenitore della regolamentazione antitrust.

Off-topic: lo strapotere di Amazon nei servizi cloud riassunto da questa infografica, ma nel frattempo Azure è diventata l’area di business più importante di Microsoft.

Davide Dellacasa
Publisher di ScreenWeek.it, Episode39 e Managing Director del network di Blog della Brad&k Productions ama internet e il cinema e ne ha fatto il suo mestiere fin dal 1994.
http://dd.screenweek.it
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