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Netflix non paga adeguatamente gli attori?

Ha fatto molto discutere la causa intentata dalla società Artisti 7607 contro la piattaforma streaming. Ma la questione è decisamente più complicata di come è stata raccontata dai mass media…

C’è tutta la narrativa ‘giusta’ per creare la polemica, a partire dall’intervista di Repubblica a Elio Germano. Da una parte, gli artisti di ‘Autori 7607′ che difendono i loro diritti. Dall’altra, la multinazionale straniera cattiva e avida. Peccato che sia un po’ più complicata di così.

Partiamo da una precisazione: tutti i titoli dei mass media si sono concentrati su Netflix, come se il problema riguardasse solo questa piattaforma e non invece tutte quelle che propongono prodotti audiovisivi italiani. E’ evidente che si è puntato mediaticamente sul soggetto più importante, ma è molto discutibile sia giornalisticamente che a livello di lotte associative (le altre piattaforme invece forniscono dati accurati? In realtà, almeno pubblicamente, ne forniscono molti meno). Altra precisazione. Un problema evidente è che – quasi sempre – gli accordi che siglano gli attori non sono direttamente con le piattaforme, ma con i produttori indipendenti italiani, che a loro volta chiudono contratti con gli streamer. Questi ultimi sono soliti chiedere la clearence di tutti diritti e sottoscrivono con i produttori dei contratti che non sono regolati dalla legge italiana. Questo, ovviamente, genera già di suo delle tensioni con le leggi italiane (talvolta in contrasto con certi obiettivi) e le aspettative degli attori. Inoltre, una lamentela diffusa nelle società di produzione italiana, è il rischio di diventare in alcuni casi dei meri produttori esecutivi, cosa che ovviamente non aiuta neanche il rispetto dei diritti degli autori.

Ma guardiamo i fatti in modo più ampio perché la questione è tutt’altro che banale e di sicuro non semplice. Dopo il recepimento della direttiva copyright tramite il decreto legislativo n. 177 dell’8 novembre 2021 (d’ora in poi, semplicemente ‘Decreto’), il discorso delle remunerazioni aggiuntive agli attori/artisti/interpreti ha visto l’introduzione di alcune novità inserite nella legge sul diritto d’autore.

Per capire meglio la questione, vediamo alcuni punti fondamentali del Decreto (che potete leggere integralmente qui).

Ai già noti compensi “equi” di cui agli art. 46 bis e 84 della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) – per intenderci quelli a carico dei broadcaster e organismi di diffusione e liquidati agli autori/artisti tramite alcune collecting – si è aggiunta la remunerazione adeguata e proporzionata introdotta nella legge sul diritto d’autore tramite il nuovo art. 107. Remunerazione che deve essere adeguata e proporzionata al valore dei diritti trasferiti e commisurata ai “ricavi”. Per soddisfare tali finalità sembrerebbe essere stato introdotto, sempre come novità nella nostra legge sul diritto d’autore, l’obbligo di rendicontazione di cui all’art. 110quater, in cui (riporto un estratto) si parla di:

“i ricavi generati da tali sfruttamenti, ivi inclusi introiti pubblicitari e di merchandising, e la remunerazione contrattualmente dovuta, secondo quanto stabilito negli accordi di concessione di licenza o trasferimento dei diritti”;
“d) con riferimento specifico ai fornitori di servizi di media audiovisivi non lineari, i numeri di acquisti, visualizzazioni, abbonati”.

Qui subentrano già enormi problemi, visto che si parla di ‘ricavi’ e non di utili. Ma ricavi in base a cosa? Al fatturato generato dal costo del prodotto (o anche alle spese di lancio)? Al fatto di aver generato una visione (o un milione) su Netflix? E’ interessante perché nella direttiva copyright – art. 19 si dice dell’obbligo di “compilare una informativa rivolta agli AIE – con cadenza almeno annuale – avente ad oggetto le modalità di sfruttamento, le condizioni di utilizzo ed i profitti (proventi) conseguiti in relazione alle opere ed esecuzioni di questi ultimi”. Qui, insomma, si parla di profitti e non di ricavi, come invece avviene anche nell’articolo 107 introdotto dal Decreto nella legge sul diritto d’autore (“a una remunerazione adeguata e proporzionata al valore dei diritti concessi in licenza o trasferiti, nonché commisurata ai ricavi che derivano dal loro sfruttamento”). Quindi perché il decreto ha puntato invece sul termine ‘ricavi’? Bella domanda.

E che dire dei “Numeri di acquisti, visualizzazioni, abbonati”? Iniziamo da quest’ultimo, che è facilmente contestabile. Se Netflix o Disney+ aumentano gli abbonati nel periodo di uscita di un prodotto italiano, che però viene visto pochissimo, devono pagare qualcosa di più agli autori, nonostante non abbia senso (se Stranger Things o Mercoledì fanno numeri record, perché dovrebbero beneficiarne gli artisti italiani)? Al contrario, se gli abbonati diminuiscono, ma quel prodotto italiano è un trionfo enorme, allora niente pagamenti supplementari? In teoria, sarebbe interessante applicare una metrica importante per Netflix, ossia il primo contenuto visto da un nuovo abbonato. Ma non c’è nessuna menzione di questa cosa specifica nell’articolo. Lasciando perdere gli ‘acquisti’ (che su Netflix non esistono), che dire delle ‘visualizzazioni’? Intanto, quale parametro usiamo per le visualizzazioni? Ore (o minuti) viste, come avviene per Netflix (nei dati che comunica anche al pubblico) e le altre piattaforme nelle rilevazioni Nielsen negli Stati Uniti? O abbonamenti che hanno visto quel contenuto (e quanto? Vanno bene anche i due minuti che erano il vecchio parametro Netflix?)?

Inoltre, il terzo comma sempre dell’art. 110quater prevede che: “Quando il cessionario o il licenziatario dei diritti di cui al comma 1 concede i medesimi diritti in licenza a terzi, gli autori e gli artisti interpreti o esecutori hanno diritto di ricevere, […] informazioni supplementari direttamente da parte dei sublicenziatari, se la loro prima controparte contrattuale non detiene tutte le informazioni necessarie. A tale fine la prima controparte contrattuale fornisce informazioni sull’identità dei sublicenziatari“. Quindi gli autori/artisti possono avere accesso alle informazioni e ai dati scavalcando i produttori (che invece non hanno questo diritto=? Sarebbe una notizia molto forte.

Semplicemente viene da pensare che, quelle introdotte dal Decreto – come purtroppo spesso accade con le norme – sono previsioni troppo vaghe (o – al contrario – anche troppo ampie), che probabilmente sono impostate su modelli di business molto diversi da quelli delle piattaforme streaming attuali o forse non del tutto pensate per il settore che vanno a regolare (in questo caso specifico l’audiovisivo). Insomma, qui rimane un vuoto sulla rendicontazione che forse spetterà all’AGCOM – che vigila sulla materia – coprire, che infatti ha avviato di recente una consultazione pubblica proprio su questi articoli.

E’ molto interessante poi analizzare anche il nuovo Art. 110-quinquies introdotto sempre dal Decreto nella legge italiana sul diritto d’autore:

1. Fatto salvo quanto stabilito in materia dagli accordi collettivi, gli autori e gli artisti interpreti o esecutori, direttamente o tramite gli organismi di gestione collettiva o entita’ di gestione indipendenti di cui al decreto legislativo 15 marzo 2017 n. 35, hanno diritto a una remunerazione ulteriore, adeguata ed equa, dalla parte con cui hanno stipulato un contratto per lo sfruttamento dei diritti o dai suoi aventi causa, se la remunerazione concordata si rivela sproporzionatamente bassa rispetto ai proventi originati nel tempo dallo sfruttamento delle loro opere o prestazioni artistiche, considerate tutte le possibili tipologie di proventi derivanti dallo sfruttamento dell’opera o prestazione artistica, a qualsiasi titolo e in qualsiasi forma, ivi inclusa la messa a disposizione dei fonogrammi online.

Per avere una “remunerazione concordata” che “si rivela sproporzionatamente bassa” bisogna che quel prodotto sia diventato un enorme successo a sorpresa, quindi in proporzioni assolutamente inaspettate. Peccato che questo quasi mai avviene per le opere italiane nel mondo su Netflix (mi concentro su di loro perché forniscono dati sufficienti a fare questo tipo di valutazioni). Direi che se non siete attori di Mare fuori (che comunque non è una produzione originale Netflix) o non vi chiamiate Alessandro Gassmann (Il mio nome è vendetta) o Zerocalcare (qui peraltro non sono neanche sicurissimo, ma almeno era un prodotto costato poco per gli standard dello streamer), è molto probabile che il prodotto Netflix a cui abbiate partecipato sia costato più (anche considerando certi budget, ben superiori a quelli Rai, come descritto qui) di quanto abbia fruttato alla piattaforma (qualsiasi sia la metrica scelta). Temo insomma che ci sia questo equivoco, portato avanti anche dai mass media. In questi giorni, per segnalare un caso che ‘dimostrerebbe’ quanto certi prodotti hanno enorme successo, ma non vengono “remunerati adeguatamente”, sui mass media si è parlato anche del film Era ora, che “batte tutti i record”. In realtà, stiamo parlando di un film che è al momento arrivato a 24,7 milioni di ore viste nel mondo (e probabilmente uscirà dalla top ten la prossima settimana, quindi questo potrebbe essere il dato definitivo) e che quindi è il 70° film in lingua non inglese da quando Netflix fornisce i dati e neanche nei primi 230 se consideriamo sia i film in inglese che non in inglese. Se poi ricordiamo che tutte le altre piattaforme che non si chiamano Netflix perdono da anni soldi notevoli, è veramente difficile pensare che ci siano prodotti italiani di enorme successo su streamer non Netflix. E anche qui, torno al discorso fatto sopra: quali sono le metriche precise per cui si dovrebbe dimostrare un successo?. Senza dimenticare che, già di suo, il termine “remunerazione adeguata” è molto vago.

In effetti, quando Cinzia Mascoli, presidente di Artisti 7607, sostiene che «la causa è l’inevitabile conseguenza di sterili e lunghe trattative nel corso delle quali la piattaforma non ha ottemperato agli obblighi di legge; non ha fornito dati completi sulle visualizzazioni e i ricavi conseguiti in diverse annualità» e «Anche per opere di grande successo, gli artisti si vedono corrispondere cifre insignificanti e totalmente slegate dai reali ricavi”, mi chiedo: quali sarebbero i dati completi di visualizzazioni e ricavi da fornire esattamente? E – cosa che mi interessa maggiormente come analista di dati – “quali sono le opere di grande successo” a cui fa riferimento Mascoli e come si è arrivati a questo giudizio di ‘successo’ (non si era detto che mancano i dati?)? Non è che ci si basa su certi comunicati ‘trionfalistici’ o anche semplicemente qualche post molto enfatico di produttori/registi/attori coinvolti in questi prodotti? E inoltre: come si segna il confine tra obbligo di trasparenza e segreto commerciale?

Infine, chiudo citando una dichiarazione di Angelo Mazzetti, Responsabile degli Affari Istituzionali di Meta, nell’audizione sul contenzioso che la società ha al momento con SIAE sui contenuti musicali che si possono (meglio, si potevano) trovare su Facebook o Instagram. Nonostante il discorso sia ovviamente un po’ diverso (potete saperne di più qui), è molto interessante questo passaggio nel quale vedo comunque molte similitudini con le problematica che si sta affrontando nell’audivisivo:

“I nostri ricavi derivano dalla pubblicità su una pluralità di contenuti che non contengono musica. Per questo per noi non ha senso partire dai nostri ricavi per definire il valore delle licenze”.

E su questo direi proprio che si può concordare anche nel nostro caso: perché partire dai ricavi assoluti per definire un compenso adeguato per gli attori? Mi ricorda certe discussioni su Google News che dovrebbe pagare cifre enormi ai quotidiani per il privilegio di citare due righe e portare loro un enorme traffico. In realtà, forse dovremmo chiederci tutti perché le piattaforme spendano ancora tanti soldi sulla produzione italiana, nonostante i risultati. E quanto possa durare. Ma questo è un altro discorso…

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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