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La vitalità del negativo: l’intervista a Riccardo Tozzi di Cattleya dal nostro Podcast

Il fondatore di Cattleya ci parla di come streaming e nuova serialità stiamo cambiando il panorama cinematografico di questi anni

In uno degli ultimi episodi del nostro podcast, abbiamo avuto modo di fare una lunga chiacchierata con Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya e Presidente ANICA dal 2011 al 2016, su una serie di temi ormai all’ordine del giorno, in questa realtà (post?) pandemica. Dal cambiamento delle window di sfruttamento dei film, alla sempre più accesa concorrenza delle piattaforme streaming al cinema in sala, passando per il successo del film Cattleya Quattro metà su Netflix e dalla serie Gomorra, siamo finiti poi a discutere di cosa rappresenti la nuova serialità e di come si differenzi dalla televisione in senso classico. Spunti davvero molto interessanti e sviscerati con tale passione e precisione che abbiamo deciso di riproporveli in questa lunga intervista. Per ascoltare il podcast, potete invece cliccare QUI.

Quattro metà ha fatto ottimi risultati su Netflix, piazzandosi per due settimane consecutive al secondo posto tra i film in lingua non inglese più visti nel mondo, e registrando un numero di ore di visione superiore di quello di È stata la mano di Dio. Quali pensi che siano le ragioni di questo successo?

Sorrentino ha fatto un film straordinario che io adoro: l’ho visto già due volte e gli auguro grandi, ulteriori fortune. Ovviamente noi siamo molto contenti di questo risultato. Quattro metà è stato in qualche modo una ricerca sulla commedia sentimentale, pensata per distanziarci dagli stereotipi del genere. Il film ha una trama complessa, non è qualcosa che “scorre come l’acqua fresca” e va visto con una certa attenzione. Questo poteva costituire un rischio, ma mi sembra che ci sia stata una risposta molto buona di pubblico e non solo in Italia. Si è lavorato molto sul copione, devo dire. Nella serialità, in generale, si lavora tantissimo sulla scrittura. Noi, ma anche gli altri colleghi, giriamo le versioni 12, 14 o addirittura 15 di un copione, dietro c’è un lavoro gigantesco. Nel cinema questo secondo me non succede tanto, però quando lo si fa i risultati si vedono.

Gomorra è stata sicuramente, in questi anni, la serie italiana più conosciuta e apprezzata non solo in Italia, ma anche nel mondo. È pensabile che arrivino anche degli spin-off?

È perfettamente ragionevole pensarlo, però non ne abbiamo l’intenzione. Abbiamo la sensazione di aver sfruttato quell’universo completamente, anche nell’ultima stagione, che è stata una stagione piena e viva, ma che, secondo noi, ha esaurito il racconto. La materia è un po’ particolare, ha una sua identità e sensibilità, per cui non intendiamo ricamarci sopra, come si farebbe con un altro tipo di materiale: ha una grande riconoscibilità, con questi personaggi forti, queste relazioni, questo mondo così intenso, che non ci viene voglia. Ci fa piacere pensare che rimanga così, anche con qualcosa di inespresso, con un desiderio latente. E sì, la serie ha avuto un grande successo internazionale, devo dire la verità, anche con un po’ di vanità. Gomorra è diventata un punto di riferimento e di ispirazione per molti e ne parlano ovunque, anche in America. In Italia si sono visti echi di Gomorra dappertutto, anche al cinema. Ma anche a livello internazionale ci sono citazioni esplicite di Gomorra. Insomma è un grande successo, non solo perché è uscito in tutti i paesi ed è stato visto, ma proprio per il grande apprezzamento che ha avuto, il grande riconoscimento. Ha una posizione reputazionale altissima.

Devo dire che è stato così anche per ZeroZeroZero, una serie diabolicamente e volutamente complessa, concepita in una fase di delirio narcisistico dopo il successo di Gomorra, che ha fatto di certo numeri più bassi ma ha una fila di ammiratori illustrissimi, molto appassionati, da Stephen King che twitta: “Hard to believe I will see anything this year that’s better than this. Bone-shaking, chilling, terrifying, epic. Dane DeHaan and Andrea Riseborough are incandescent…”, fino ai Fratelli Russo, che hanno dichiarato di voler lavorare con chi ha prodotto ZeroZeroZero perché è una cosa inarrivabile. Quindi, insomma, abbiamo avuto soddisfazioni da queste due serie anche nell’ambiente professionale, nella cultura seriale internazionale.

Attualmente state lavorando con i Russo e Amazon alla serie Citadel, che avrà degli spin-off locali…

Quella è una serie complicatissima, nasce da una delle società dei Fratelli Russo con Amazon. È una novità assoluta per l’Italia, perché è un genere che noi non abbiamo mai fatto: l’action un po’ fantasy, spinto nel futuro, tra Bond e Mission: Impossible. Quel tipo di mondo che richiede anche dei mezzi fuori dall’ordinario europeo, soprattutto rispetto agli effetti speciali. Ci stiamo divertendo molto a farla, il mondo degli effetti speciali, quelli veri, quelli da grande prodotto americano e anglosassone, è estremamente interessante. Ma è al tempo stesso un settore complicatissimo, fatto di costi e tempi spaventosi e anche di scienza, direi. Stiamo imparando molto e ne siamo contenti.

La serie è complessa da un punto di vista produttivo e artistico, perché è un genere che in Italia non si è mai praticato. Siamo partiti da un’idea su come agganciare questo mondo nel nostro racconto e ci sembra che funzioni. Anche lì non so dirti il numero di stesure della sceneggiatura, non so se quella che ho letto ultimamente è la 12, la 13, la 14… è un lavoro enorme.

Parlando di window, qual è secondo te la soluzione migliore che aiuterebbe a preservare la sala? Meglio affidarsi a una legge o lasciar fare al mercato?

Non è un mistero che la filiera cinematografica si stesse incartando su sé stessa, creando una serie di problematiche anche a livello creativo, e noi a Cattleya lo abbiamo subodorato abbastanza presto. Per questo abbiamo deciso di ridurre moltissimo la produzione di film e contestualmente aumentare molto quella di serie. Decisione che in realtà deriva anche dal fatto che ci piace moltissimo farle e finora ci è andata piuttosto bene.

Un dato che mi è subito sembrato molto interessante, uscito fuori da ricerche in Italia ma soprattutto in America, da cinque anni almeno, è che non c’è un cambiamento nel volume di pubblico che va in sala: tralasciando la fase del Covid, il numero di biglietti venduti non ha subito una grandissima flessione. Non sta succedendo, per capirci, quello che è successo all’avvento della televisione. Questa rivoluzione digitale, che pure è la più grande di tutte, non mi sembra stia incidendo sul numero di biglietti venduti, ma incide invece sulla composizione del pubblico. È caduta un’antica barriera naturale, l’unica vera finestra, che era la suddivisione tra pubblico cinematografico e pubblico non cinematografico. Se ci pensate, fino a dieci anni fa quelli che andavano al cinema non vedevano la fiction televisiva, la ignoravano. E, viceversa, i grandi fruitori di televisione al cinema andavano pochissimo: molti proprio mai, altri ci andavano una volta l’anno. Questa cosa, con lo sviluppo delle Pay TV, l’avvento delle piattaforme e la digitalizzazione, è caduta. Non c’è più una netta distinzione tra pubblico cinematografico e pubblico televisivo, c’è un “pubblico generale”. Questo pubblico generale non pensa necessariamente che il film vada visto in sala, ma che vada visto quando e come gli pare.

La nuova serialità è un prodotto appunto nuovo, che non esisteva prima e che fa competizione direttamente al cinema, perché è visto da quello che un tempo era il pubblico cinematografico, ma che ora è anche pubblico di film e serie. Questa trasformazione fa sì che la sala non sia più il punto di riferimento unico del film. Se noi costruiamo il valore del film, economico e reputazionale, sulla sala, noi distruggiamo il cinema, perché i film devono vivere a ridosso di un pubblico diffuso, che va raggiunto dovunque esso sia. Questa tendenza non mette affatto a rischio le sale, perché io penso che, quando sarà passata la pandemia, il numero di persone che andranno al cinema e il numero di biglietti venduti sarà più o meno in linea con quello che è sempre stato in Italia, 80/100 milioni. Pochi, perché l’Italia è un paese in cui da quarant’anni la gente al cinema ci va poco. Però quelli, che fanno vivere il sistema delle sale, si venderanno. Ma non sarà più come cinque o sei anni fa, dove il grosso di quei biglietti viene comprato dal pubblico cinematografico. Quello stesso numero di biglietti verrà comprato da un numero di persone maggiore, ma che andrà in sala meno volte.

Questo inciderà poco sulla sala, ma molto sul film stesso. Perché con un pubblico generalista i grandi numeri li fanno solo gli eventi, e cioè i grandi film americani e pochissimi film italiani. Da noi se ne producono sicuramente più di 200 e questo significa che, di questi, 190 non possono realizzare numeri significativi nel circuito cinematografico e dovranno andare a stanare il proprio pubblico ovunque si trovi. E come si fa questa cosa? Dobbiamo rifletterci. I distributori devono smettere di pensare di essere distributori di sala che poi vendono gli altri diritti, devono essere dei punti di riferimento che fanno il business plan di un film su tutta l’articolazione della filiera, a seconda di ciascun progetto. Questo significa che dobbiamo pensare anche a che tipo di film intendiamo fare. Se facciamo film che puntano a grandi numeri in sala, devono essere estremamente mirati e originali e bisogna creare intorno ad essi un evento, perché altrimenti la massa critica non la fai. Se invece vogliamo fare film potenzialmente bellissimi, ma non evento, dobbiamo rivolgerci a un pubblico diffuso e dobbiamo avere un’idea di come raggiungerlo. In generale credo si debba prendere un po’ meglio la mira, ma non ho al momento le idee chiare su come questo si traduca in termini pratici.

Ma sono convinto delle due cose che ho detto prima. Cioè che il cambiamento sostanziale del pubblico e la scomparsa del pubblico cinematografico non voglia dire meno gente che vede film. C’è più gente che vede film ma non è gente che guarda non solo i film, guarda un po’ di tutto, e non pensa più che il film vada visto per forza in sala. Un’ulteriore sensazione che ho è che oggi lo spettatore amante della sala cinematografica desideri qualcosa di simile al cineclub. Anche le sale devono ragionare su questo. Vanno assecondati i nuovi desideri del pubblico. L’atteggiamento minaccioso “vai a vedere questo film in sala perché proibisco di farlo vedere altrove per molte settimane” non credo che al giorno d’oggi funzioni. Potrebbe succedere il contrario: se mi “minacci”, magari il film non lo vedo proprio, vedo un’altra cosa. Bisogna cogliere le novità e sfruttarle: nuovi modi di far vivere una sala, sale per pubblici differenziati e che si affermano per la loro forte identità di “luogo”. Secondo me le sale hanno grandi opportunità, però non più con il vecchio meccanismo. Il vecchio meccanismo non può più funzionare. Il presidente Mao si fece quella nuotata per far capire che se nuoti nella direzione della corrente ti puoi scegliere la sponda su cui approdare. Se vai controcorrente, invece, affoghi. È un grande insegnamento.

Cattleya si è concentrata tanto su produzione di serie TV, fiction e nuova serialità. Quanto è definitiva questa scelta? Vedremo sempre meno film e sempre più serie? E quanto c’è ancora da fare nell’esplorazione dei generi nel nostro paese?

Penso che quella che stiamo chiamando nuova serialità sia una rivoluzione culturale, perché è figlia della fiction e del cinema, ma non è né fiction né cinema. É un tertium nuovo, un racconto che nasce a ridosso della globalizzazione e che racconta la globalizzazione. È il romanzo del terzo millennio. Sappiamo che, nelle grandi epoche di crisi e di cambiamento, aumenta la domanda di racconto. Il grande romanzo dell’Ottocento si è sviluppato a ridosso della rivoluzione industriale. Lo spaesamento che il cambiamento genera richiede racconto, racconto che ti aiuti a capire, che ti dia il senso che ci sia un ordine. Perché il racconto ordina. Per tutte queste ragioni la nuova serialità è il prodotto del tempo, di questo bisogna prendere atto. E influenzerà tutto, influenza la vecchia fiction, tant’è che anche la Rai e le generaliste stanno cambiando i loro modelli di racconto. E anche il cinema cambierà i suoi modelli di racconto per effetto della serialità. La serialità non è la televisione come la intendevamo dieci anni fa. È figlia del cinema. Per quanto riguarda noi è di un’evidenza lampante, tutte le serie che abbiamo fatto le abbiamo basate sui film che avevamo fatto prima.

Questo per dire che ci sarà una tendenza naturale a produrre molte serie. Il che non vuol dire che si produrrà poco cinema. Tra l’altro il numero di film prodotti in Italia è aumentato enormemente negli ultimi anni. Però, in termini di importanza, il cinema dividerà il letto con la nuova serialità, e deve prenderne atto. Tutti dobbiamo prenderne atto. Perché se vai a cena è molto difficile che ti domandino “Ma tu l’hai visto questo film?”. Ti chiedono: “Stai vedendo questa serie?”. Negli ultimi dieci anni i metri quadrati dei quotidiani dedicati al cinema sono diventati un terzo, mentre i metri quadrati dedicati alla serialità e alla fiction si sono moltiplicati per tre, cinque, dieci. La critica televisiva era un po’ un fantasma, oggi è importantissima, anche in rete. Quindi sì, si faranno molte serie, però si faranno anche molti film.

Noi come Cattleya continueremo a fare i film. Cercheremo, in questa fase, che consideriamo una fase di transizione, di farne pochi e mirati, con dei tentativi, perché non percepiamo la relazione col pubblico. Io non posso produrre se non ho un pubblico di riferimento, anche piccolo se vuoi. Devo sapere a chi parlo. Nei primi quindici anni del 2000 noi, come tanti produttori, abbiamo fatto un cinema italiano di qualità che ha avuto un grande pubblico. Un pubblico di moviegoers, che andava al cinema venti volte l’anno, e che io avevo l’impressione di conoscere. Sono uno che andava davanti alle sale a vedere chi entrava, e a mischiarsi con chi usciva. Mi pareva di conoscerli. Quando lavori per produrre una serie, tu quel pubblico lo conosci, perché hai tutti i demografici, le analisi, quello che ha visto, come è composto. Sai a chi ti rivolgi. Oggi sappiamo fin troppo bene a chi ci rivolgiamo quando produciamo una serie, per il cinema, invece, no. Quindi faremo tentativi in varie direzioni. Abbiamo appena finito di girare in Norvegia un film – un’opera prima tra l’altro – tratto da un libro di Jo Nesbø con un cast internazionale e Alessandro Borghi. Un film di Francesco Carrozzini, che doveva intitolarsi Sole di Mezzanotte ma che avrà un altro titolo, perché quello è troppo “usato”. Ed è un tentativo in una direzione di “genere”. Questo è un esempio del nostro orientamento, della nostra linea.

La società è stata fondata con due presupposti di orientamento culturale: lavorare sui libri, quello che oggi si chiama IP. In Italia c’era un deficit da quel punto di vista. Mentre nel mondo anglosassone la gran parte dei film e delle serie è sempre stata fatta a partire da testi, in Italia questo all’epoca non c’era. E il secondo è il genere. Noi abbiamo avuto un grande cinema di genere negli anni ’60 e ’70, che poi è – a ben vedere – il cinema italiano più conosciuto e studiato nel mondo. Tant’è che ci ritorna sempre da fuori, da Tarantino e Scorsese ad esempio. Quello è un grande cinema, una riserva naturale, e da noi è stato abbandonato, bollato, interdetto. Quindi la seconda idea di Cattleya era tornare al genere, anche perché il genere è un codice che si ricollega agli archetipi. Quindi il genere è più universale, più leggibile internazionalmente. Perché sta su codici correlati all’inconscio, che sono uguali ovunque e hanno una grande forza.

Adesso abbiamo fatto un western “stortissimo”, Django. Un’altra produzione molto complicata, devo dire. Sono molto curioso di vederne gli effetti, perché è potentissimo. Facciamo questa puntata nell’action-fantasy, che è veramente pionieristica per l’Italia, con Amazon. Anche Petra è genere. Se sono generi già un po’ frequentati, cerchiamo di dargli una “botta di storto”. Petra è un personaggio femminile antipatico, scorretto. Se dovessi definire un po’ la nostra estetica, userei il titolo di una mostra d’arte che c’è stata a Roma agli inizi degli anni ’70, la più importante mostra del mondo in quegli anni: La vitalità del negativo. Noi crediamo nella vitalità del negativo.

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