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Netflix, tra realtà e fantasie sballate

In questi giorni, sono stati spesi fiumi di parole sull’azienda, dopo il crollo in Borsa. Ma la verità è decisamente più complessa…

Lo stato delle cose
La faccio semplice: ho spesso criticato il fanatismo di chi pensava che Netflix fosse presente in ogni casa e dovesse dominare il mondo. Non è molto diverso da chi in Italia, qualche anno fa, faceva lo stesso con Sky, semplicemente perché era il nuovo rispetto ai ‘vecchi’ Rai e Mediaset.

Ora però non è il caso di incorrere nell’errore opposto. Netflix sta affrontando dei problemi tipici della maturità di un’azienda (e forse anche di un intero settore), e lo fa ovviamente prima degli altri, che sono partiti molto più tardi. Così, trovo folle (e completamente scorretto) paragonare la mancata crescita di abbonati di Netflix con la continua crescita di aziende che magari sono a un terzo o a un quarto degli abbonati della società di Reed Hastings.

In questi giorni, Netflix ha dichiarato di avere, oltre ai 221,6 milioni di abbonati ufficiali, anche un centinaio di milioni di altre abitazioni che utilizzano il servizio con una password ‘in prestito’. Lasciamo stare come risolvere il problema (ne parliamo più sotto) e prendiamo per buona una stima non semplice da dimostrare. Ma se questi sono i numeri e considerando che ogni nucleo familiare può variare molto a seconda dei singoli Paesi, stiamo comunque parlando di almeno 800 milioni di persone che hanno accesso a Netflix, forse anche una cifra più vicina al miliardo.

Se consideriamo che la Cina (1,4 miliardi di persone) è un territorio off limits e che tante nazioni molto popolose non hanno un’adeguata connessione Internet per tutti, è evidente come Netflix sia un enorme successo di diffusione. Il problema è convincersi che possa fare ancora molto meglio (l’idea di Jason Kilar che la platea potenziale per un servizio streaming sia di un miliardo di abitazioni, pronunciata solo poche settimane fa, ora sembra ancora meno credibile), ma questo non significa che Netflix non sia una realtà che rimarrà ancora protagonista del settore anche nei prossimi anni. D’altronde, se non ce la facessero loro, figuriamoci gli altri servizi streaming, decisamente in ritardo, sia a livello di abbonati, che di una strada credibile per arrivare a generare profitti.

Più che altro, segnalo un paradosso. Per anni, alle major è stato detto che dovevano diventare come Netflix e andare ‘all in’ sullo streaming, sostanzialmente abbandonando tutto il resto. Lo hanno fatto (qualcuno talmente in ritardo, da essere arrivati quando Wall Street ormai ha cambiato idea) e adesso rischiano seriamente di pentirsene. Gli stessi ‘esperti’ adesso spiegano a Netflix come debba differenziarsi e occuparsi di tanti altri campi. Ora, per alcuni aspetti concordo, come la pubblicità (vedi sotto). Ma sentire ancora nel 2022 l’idea che le piattaforme dovrebbero comprarsi i cinema, no, please, siamo seri…

La qualità? Chi vuole la qualità?
Una delle reazioni che mi ha più divertito tra i commentatori (non solo i semplici consumatori sui social, ma anche professionisti su testate importanti), è l’idea che Netflix stia perdendo abbonati per colpa della qualità dei suoi prodotti. Che, francamente, in media non è mai stata straordinaria, cosa abbastanza naturale se produci una marea di materiale (tutto il contrario del modo di lavorare di una HBO, per dire), in cui avrai comunque diversi titoli di valore, ma anche tanta roba dimenticabile.

Ma il pubblico di Netflix punta alla qualità, ai prodotti che piacciono alla critica? Vediamo la top ten dei film più visti di sempre su Netflix:

Red Notice
Don’t Look Up
Bird Box
The Adam Project
Extraction
The Unforgivable
The Irishman
The Kissing Booth 2
6 Underground
Spenser Confidential

Voi vedete tutta questa qualità? Io no. E se gli abbonati hanno visto e stravisto prodotti mediocri per anni, perché adesso dovrebbero abbandonare Netflix per la ‘mancanza di qualità’? Semplicemente, Netflix è stata bravissima a puntare su un pubblico di massa e a raggiungerlo perfettamente, con prodotti con target precisi. Magari, anzi, è riuscita a migliorare (almeno a livello di costi produttivi) alcune tipologie di prodotti televisivi, come i documentari crime o certi reality sentimental/sessuali, che magari già Discovery aveva portato al successo, grazie a una formula vincente di bassi costi/ascolti importanti. Ma pensare che Netflix abbia problemi per la qualità, è veramente ingenuo…

L’ossessione degli abbonati
Si dice spesso che Netflix abbia una posizione di leader da difendere. Secondo me, si pensa erroneamente che Netflix sia leader perché ha più abbonati degli altri. No, quella è la conseguenza di essere stati per anni dei precursori e aver testato/migliorato la loro tipologia di offerta, trovando delle soluzioni che potessero portare la società verso i profitti, prima o poi. D’altronde, non si dice sempre che Samsung vende più telefonini, ma gli iPhone producono più profitti per Apple? E quindi la vera importanza di Netflix non è semplicemente quanti abbonati ha (comunque tanti), ma quanto riesce a farli pagare, magari quasi 15 dollari di media per gli abbonati nordamericani. Significa aver trovato dei prezzi giusti e corretti, per un’offerta molto ampia e ricca (in tutti i sensi, anche nei costi).

Poi però la fissazione sugli abbonati, per cui conta solo questo, porta per esempio a critiche assurde sugli aumenti di prezzo. Ovvio che queste scelte possono far perdere un po’ di abbonati, ma se questo consente di aumentare i profitti, fa benissimo Netflix a farlo. Perché tanto, se non lo avete capito, prima o poi lo dovranno fare anche gli altri servizi streaming…

Netflix e il Woke
Non c’è dubbio che la cosa più folle che ho letto in questi giorni, è che Netflix perderebbe abbonati perché è “troppo politicamente corretta” nei suoi prodotti. Sicuramente, ha contribuito un tweet di quel mattacchione (sempre al limite tra genialità e follia) di Elon Musk, che ha scritto “The Woke Mind Virus Is Making Netflix Unwatchable”, insomma, la “mentalità Woke rende Netflix invedibile”.

Ma è veramente così? Semplicemente, Netflix produce centinaia di titoli, basta fare cherry picking su alcuni prodotti in particolare e potrete ‘dimostrare’ tutto e il contrario di tutto. Volete una prova che Netflix è invece ‘trumpiana’? Pensate a come è stato difeso Dave Chappelle, che ha utilizzato tutto uno speciale per attaccare la comunità trans, con tematiche e opinioni che, prima ancora che offensive, erano semplicemente stupide e banali. Pensate a una serie come You, che glorifica il protagonista stalker/maniaco e il suo rapporto perverso con le donne. Pensate a come è stata massacrata in Tiger King Carole Baskin, di sicuro vittima di un pazzo furioso al centro della storia, ma che appariva (senza prove) come l’assassina di suo marito.

Inutile dire che non penso proprio che Netflix sia ‘trumpiana’. Era solo per dimostrarvi che, prendendo i titoli giusti, si possa dimostrare qualsiasi cosa…

La pubblicità: ma allora non faceva schifo!
La maggiore novità emersa dalla lettera agli azionisti, è la volontà (a questo punto chiarissima) di dar vita a una versione di Netflix con pubblicità, ovviamente con un prezzo per l’abbonamento minore. E’ una buona idea per aumentare i profitti? Sì.

Come segnalava un analista citato dall’Hollywood Reporter, la stima di profitti entro il 2030 potrebbe essere di 4 miliardi all’anno. Va detto che qualsiasi cifra su cui si ragionasse oggi, sarebbe poco significativa, visto che non sappiamo ancora bene quando partirà questa versione di Netflix e quanto costerà, ma soprattutto che numeri riuscirà ad avere (e se permetterà di far arrivare nuovi abbonati o se, ipotesi molto meno favorevole, spingerà quelli esistenti a ‘risparmiare’, passando alla versione meno costosa).

Per dimostrare quanto potrebbe essere importante (forse anche più dei 4 miliardi ipotizzati) questa opzione per Netflix, è interessante citare alcuni numeri di Hulu, che l’anno scorso ha ottenuto più di 3 miliardi in America, dove comunque ha meno della metà delle ore di visione di Netflix, senza contare ovviamente che Netflix ha una platea mondiale a disposizione e Hulu no.

Inoltre, i numeri di Hulu dimostrano che si fanno più soldi con la versione arricchita dalla pubblicità, che con quella senza. In effetti, un abbonato medio a Hulu permette alla società di ottenere 8,5 dollari al mese dagli spot, più il costo dell’abbonamento di 6,99 dollari. Complessivamente, quindi, siamo a 15,49 dollari per abbonato, contro i 12,99 di chi paga per il servizio senza pubblicità. E’ importante precisare però che aprire l’universo Netflix alla pubblicità significa anche affrontare spese ingenti, che si decida di prendere professionalità interne o esterne. Insomma, i conti fatti sopra su Hulu sono interessanti, ma non è così semplice.

Comunque sia, proprio per le cifre indicate nel precedente paragrafo, c’è chi ritiene che il prezzo giusto per l’abbonamento a Netflix con pubblicità sarebbe di circa 10 dollari in America, quindi con uno sconto di circa il 50% (livello di sconto da applicare sostanzialmente anche negli altri territori, dove il prezzo è minore).

Come citava però un interessante articolo di Bloomberg, non tutte le agenzie di pubblicità sono convinte che possa funzionare benissimo. Intanto, per ora i servizi streaming che hanno già la pubblicità all’interno di un abbonamento a pagamento, la limitano a pochi minuti ogni ora.

Sicuramente, poter comunicare a una fascia di pubblico che magari ha abbandonato la televisione tradizionale, è sicuramente importante per gli investitori pubblicitari. Tuttavia, sarà fondamentale vedere “quanti dati Netflix vorrà condividere, come la società calcola il suo pubblico di spettatori e quante persone si abboneranno alla versione con pubblicità”.

Un altro problema potrebbe essere il binge watching. Questo perché le agenzie di pubblicità, per una serie, possono anche iniziare ad acquistare gli spot a metà stagione se vedono che questa ha successo, cosa che ovviamente l’uscita di tutti gli episodi non permette (o almeno, permette forse troppo tardi, quando l’ondata di interesse è già scemata). Cambierà anche questo aspetto, che peraltro sarebbe utile per ‘costringere’ gli abbonati a rimanere iscritti per almeno due-tre mesi per vedere una serie di successo?

La password condivisa
Come scrivevo la scorsa settimana, la questione della ‘password condivisa’ è diventata una delle maggiori preoccupazioni di Netflix. Difficile dire se è qualcosa che veramente può fare la differenza economica e aumentare sensibilmente il numero di abbonati (o comunque, di persone che pagano per avere Netflix a casa) o se è un modo per tranquillizzare gli investitori, facendo capire che si sta facendo tutto il possibile su ogni fronte, segnalando come la politica del laissez-faire della società è terminata.

Tutto questo porterà a risultati significativi? Sicuramente, non nel brevissimo periodo, visto che i test nei Paesi sudamericani di cui vi avevamo già parlato sono ancora in corso e necessitano di tempo, prima di essere estesi in tutto il mondo… se lo saranno. Personalmente (e potrei ovviamente sbagliarmi) temo che sarà un percorso molto difficile.

Per esempio, cosa succede se uno studente universitario che vive fuori dalla casa dei suoi genitori, utilizza la loro password (che è anche sua, d’altronde se lo mantengono agli studi, non si capisce perché dovrebbe essere autonomo per l’abbonamento di Netflix)? E, in generale, quando si condivide la password di Netflix con familiari che non vivono con noi?

Ovviamente, la società potrà dire che questo non è comunque ammesso, ma non è così ovvio che la soluzione sia “d’accordo, paghiamo qualcosa in più per farla utilizzare anche ad altre persone”. Potrebbe invece essere “Netflix, ci hai stufato, disattiviamo l’abbonamento”. Non si rischia di provocare rabbia e frustrazione, quindi pessima pubblicità per l’azienda?

In ogni caso, il discorso del numero di spettatori totali (anche quelli che magari usano password di altri), conta moltissimo. Netflix adesso sostiene che alle 220 milioni di abitazioni abbonate al servizio se ne aggiungono circa 100 che utilizzano password per cui non pagano. E’ ovviamente un problema, ma significa poter vendere la pubblicità a prezzi molto superiori ai soli 220 milioni di famiglie ‘ufficiali’. Non è detto che ridurre notevolmente questo numero sia vantaggioso, se poi non si riesce a trasformare la maggior parte dei consumatori a ‘scrocco’ come paganti…

Il Churn, questo cattivone
Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato stupito, è quanta importanza si dà all’acquisizione di un nuovo abbonato (e quanto si è disposti a spendere per farlo) quando poi il suo valore rischia di essere ‘effimero’. Non stiamo infatti parlando di un abbonato alla pay tv dei bei tempi, che per cancellarsi doveva prendere una settimana di ferie per tutte le complicate procedure necessarie. No, qui bastano un paio di clic e sei a posto. Puoi anche prenderti una pausa e riprendere a vedere tutto qualche mese più tardi (tanto, può recuperare ogni cosa, e visto che l’offerta di diritti sportivi sulle maggiori piattaforme mondiali è limitatissima, non c’è neanche quell’amo enorme per rimanere sempre abbonato).

Ovvio che il churn è un problema enorme, non solo di Netflix, ma per tutti. Come ha dichiarato Jana Arbanas di Deloitte LLP, citata in un articolo dell’Hollywood Reporter, “churn is here to stay”. Ma allora, ammazzarsi di investimenti che un giorno dovranno essere notevolmente ridotti per ottenere abbonati ‘poco fedeli’, è veramente una buona idea?

Produzioni da ridurre, iniziamo a preoccuparci
Seguitemi nel ragionamento. Con un numero di abbonati che non sembra poter tornare a salire in maniera forte e presto e con il conseguente crollo in Borsa, la necessità di far quadrare i conti, riducendo gli investimenti e preoccupandosi più dei profitti, in attesa che il piano per la pubblicità parta (ma ci sarà almeno un anno da aspettare), a me sembra evidente che bisognerà ridurre i costi per i contenuti prodotti. Non solo il solo a pensarlo, considerando anche questo articolo del Wall Street Journal, in cui si segnala come, d’ora in poi, l’obiettivo di un prodotto non sarà raggiungere il maggior pubblico possibile, ma avere un buon rapporto tra i costi e il numero degli spettatori. Insomma, come sostiene il WSJ, “For Netflix Inc., the era of carefree spending is over”.

Il WSJ cita anche le parole di un dirigente che ha collaborato spesso con le sue produzioni e che sostiene che Netflix voglia ridurre i budget per le nuove serie anche del 25%. Inoltre, la premium fee che Netflix dà ai produttori per la cessione completa dei diritti e che è legata a una percentuale sul budget (il WSJ parla di una quota tra il 20 e il 35%, c’è chi sostiene che sia tra il 15 e il 30%), potrebbe essere trasformata in una sorta di ‘flat fee’ (o tariffa fissa), in modo che non aumenti sensibilmente con l’aumentare del budget di produzione. Non semplicissimo quando devi rinnovare una serie di grande successo e in cui tutti (produttori, attori, sceneggiatori, ecc.) vogliono un sensibile aumento di stipendio, visto che tanto non riceveranno mai royalties negli anni successivi.

Tutto questo mi porta a una considerazione. Se iniziamo a capire come verranno ridotte le spese, dobbiamo anche chiederci DOVE verranno ridotte. Di sicuro, i tagli maggiori non avverranno nei Paesi in cui ci sono tanti abbonati, né in quelli in grado di dar vita a titoli di successo in tutto il mondo (penso soprattutto alla Corea del Sud e alla Spagna). Ora, leggendo questo articolo su Davidemaggio.it e aggiungendo il discorso fatto sopra, temo proprio che noi italiani dobbiamo iniziare a preoccuparci.

Detto solo che non prenderei per oro colato le stime di PWC (è la stessa società che prevedeva 283 milioni di euro di incassi nelle sale italiane nel 2021 e 579 milioni per questo 2022), comunque il problema di fondo rimane. Non abbiamo un numero di abbonati per abitanti particolarmente alto e le nostre produzioni (almeno da quando Netflix ha iniziato a comunicare i dati mondiali, circa 10 mesi) non hanno ottenuto risultati straordinari.

Se vi ricordate questo mio articolo recente, è appunto lo scenario che ho ipotizzato. Una forte riduzione degli investimenti delle piattaforme, che prima o poi sarebbe dovuta comunque arrivare, porterà a una forte riduzione delle produzioni. Forse, c’è il rischio che avvenga prima e non poi…

Chi potrebbe comprare Netflix?
Come scrivevo la scorsa settimana, non posso certo essere sicuro che avvenga una scalata ostile in Borsa contro Netflix (mi pare invece improbabile che Hastings venda, ma chissà, non voleva neanche la pubblicità fino a poco tempo fa…). Quello di cui sono sicuro, è che non c’è mai stato un periodo così favorevole per un’operazione del genere (acquisizione ostile o concordata) come questo. A metà novembre 2021, il prezzo delle azioni di Netflix era di 691 dollari, ora è di 209 dollari (circa il 70% in meno). Cinque mesi fa, Netflix aveva una capitalizzazione di Borsa di 308 miliardi (valeva più di Disney!), mentre adesso siamo a meno di 100 miliardi, per la precisione 94,3 miliardi.

Ma chi potrebbe compiere un’operazione del genere? La nuova Warner Bros. Discovery parte già da un forte debito, necessario per consentire a Discovery di mettere le mani su Warner. Veramente difficile pensare che possa indebitarsi ancora. Disney? Ci fosse stato ancora Bob Iger, maestro di questo tipo di operazioni, magari avrei pensato che fosse possibile. Adesso, con Chapek che deve guadagnarsi la riconferma, mi sembra improbabile che possa portare avanti questa idea molto rischiosa (e comunque ancora molto costosa).

Amazon sarebbe sicuramente un ottimo partner, ma dopo che la ‘semplicissima’ (in confronto) acquisizione di MGM per 8,5 miliardi di dollari ha faticato parecchio per essere approvata dall’Antitrust americano (e non è ancora detta l’ultima parola), non sembra semplice acquisire una società che vale più di 10 volte tanto quell’operazione e riuscire a passare al vaglio di chi deve controllare l’equilibrio dei Mercati (fermo restando che chiunque abbia soldi e interesse per comprare Netflix, si vedrebbe ‘attenzionata’ dall’Antitrust).

A questo punto, se dovessi puntare su una realtà che può farcela, è Apple. Non ha certo problemi a trovare i soldi in cassa. Ha invece grossi problemi a dar vita a un servizio streaming che non parli solo a una nicchia, magari desiderosa di prodotti di buona qualità, ma poco ampia (tutto il contrario di Netflix, come scritto sopra) e con un catalogo ridottissimo che è sempre stato il suo tallone d’achille. Sarebbe un modo di dare un senso ad AppleTv, che non sia soltanto “facciamo contenti i nostri clienti che comprano hardware Apple”, ma anche dar vita a un servizio streaming che si regga sulle proprie gambe e diventi importante di suo. Vedremo…

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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