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Il Podcast di Cineguru: dal weekend cinematografico alle polemiche su Venezia 81

Il box office del weekend, le polemiche sul Festival di Venezia e l’impatto dell’IA sul cinema. Ascolta il nuovo episodio del Podcast di Cineguru.

Nel nuovo episodio del Podcast di Cineguru, Davide Dellacasa e Robert Bernocchi discutono del weekend cinematografico appena concluso, che ha visto Cattivissimo Me 4 in prima posizione, seguito da Beetlejuice Beetlejuice e It Ends With Us. Tra i risultati degni di nota, spicca Inside Out 2, che ha superato gli incassi di Tolo Tolo di Checco Zalone.

Il dialogo si estende poi a una riflessione sulla situazione attuale del cinema e sui gusti del pubblico, sempre più selettivo rispetto al passato. Si affronta inoltre il tema dell’Intelligenza Artificiale, esplorando l’impatto che sta già avendo e che potrebbe avere in futuro sull’industria cinematografica.

Un altro argomento di discussione è Megalopolis, il nuovo film di Francis Ford Coppola: cosa ci si può aspettare dagli incassi negli Stati Uniti? I primi dati di tracking non sembrano promettenti.

Infine, si tocca il tema del Festival di Venezia e delle recenti polemiche sul ruolo dei giornalisti nell’industria dell’intrattenimento.

Potete ascoltare il Podcast di Cineguru nei seguenti player.

Potete ascoltare il podcast anche ai seguenti link:

Ed ecco anche l’intera trascrizione del podcast:

Questa trascrizione è stata generata tramite un servizio di trascrizione. La versione attuale potrebbe non essere definitiva e potrebbe essere soggetta ad aggiornamenti

Davide Dellacasa

Buongiorno, buon lunedì. Ciao, Robert.

Robert Bernocchi

Buongiorno, come va?

Davide Dellacasa

Tutto bene. Poi, insomma, Sinner ci ha regalato questa grande vittoria della domenica sera. Quindi, chissà, una volta parlavamo di calcio e di altre cose che avevano un impatto sul box office. Chissà se questa partita, alle otto di sera di domenica, ha avuto un impatto sul cinema o se il tennis continua a essere, nonostante ne parliamo tutti, molto di nicchia o troppo di nicchia per avere un impatto.

Robert Bernocchi

Però sta diventando ovviamente molto popolare, proprio perché abbiamo il numero uno del mondo e, inoltre, abbiamo una squadra di giocatori come non abbiamo mai avuto prima, neanche negli anni settanta, insomma.

Davide Dellacasa

n po’ meno, perché, dopo essere partito bene giovedì — se non ricordo male, era al primo posto — ha dovuto competere con Cattivissimo Me 4, che è risultato vincitore di questo weekend cinematografico, almeno qui da noi. Il risultato complessivo è stato ottimo, con un calo, mi sembra, davvero contenuto rispetto alla settimana precedente.

Robert Bernocchi

Assolutamente sì. Per quanto riguarda Beetlejuice, devo dire che personalmente mi sono lasciato ingannare. Quando ne abbiamo parlato una settimana fa al podcast, mi ero basato sul tracking americano, che era fortissimo e poi si è confermato. Tuttavia, nel corso della settimana è uscito anche il tracking internazionale, che era molto più basso, parlando di 35 milioni nei territori in cui sarebbe stato distribuito, e alla fine quello è stato il risultato. Devo dire che, rispetto a quelle previsioni, il risultato di Beetlejuice è abbastanza in linea. Certo, speravamo tutti che facesse meglio, anche solo per il fatto che questo settembre è stato davvero povero di nuove uscite importanti. Va detto, però, che questo esordio, che ripeto, non è affatto disastroso — anzi, è più che dignitoso — si inserisce in un panorama di settembre davvero difficile. Siamo già nella prima settimana e i dati sono sotto del 40% rispetto a quanto si era fatto nel 2023. Non vedo titoli all’orizzonte che possano avere un impatto significativo, forse qualche sorpresa o qualche film che potrebbe fare più di 2 milioni, ma nulla che cambi davvero il mercato in maniera sostanziale.
Su Cattivissimo Me 4 hai assolutamente ragione: perdere solo il 16% è davvero un ottimo risultato, e siamo ormai vicini ai 14 milioni. L’idea che il film chiuda a 16-17 milioni mi sembra ancora il pronostico più probabile, e sarebbe un risultato eccellente. Inoltre, va sottolineato che ieri, grazie alla pioggia su gran parte d’Italia, gli incassi sono aumentati notevolmente. Per esempio, anche Inside Out 2 ne ha beneficiato, migliorando addirittura del 17% rispetto allo scorso weekend. Come avevamo previsto, ha superato persino il risultato di Tolo Tolo di Zalone, quindi ormai non ci sorprende più nulla riguardo a questo film.

Davide Dellacasa

Inside Out è già da almeno una decina di giorni disponibile in vendita sulle piattaforme digitali, se non sbaglio, anche se non è ancora arrivato su Disney Plus in abbonamento. È comunque già disponibile in digitale, dove sta dominando le classifiche di vendita. Certo, queste classifiche non sono molto trasparenti, anzi, sono ancora meno chiare rispetto a quelle dello streaming: vediamo l’ordine dei titoli, ma non conosciamo i numeri effettivi dietro quei risultati. È davvero interessante notare come un titolo già disponibile in digitale, ovviamente in maniera legale — non parliamo nemmeno del mercato illegale, dove è certamente arrivato da più tempo — continui a ottenere ottimi risultati. È un grande successo, e questo contribuisce in modo determinante al risultato complessivo della Disney, che quest’anno è diventato il primo studio a superare i 4 miliardi di dollari di incassi. Certamente, gran parte del merito va a Inside Out, ma anche altri titoli come Deadpool e Wolverine, senza dimenticare Alien, hanno dato un contributo significativo a questo dato.

Robert Bernocchi

Sì, è un dato importante, perché dimostra che i film che la Disney ha fatto uscire quest’anno, pur non essendo moltissimi, hanno avuto un grande impatto. Ci ricordiamo tutti che ci lamentavamo del fatto che il primo semestre sarebbe stato praticamente vuoto, poi però abbiamo avuto la bellissima sorpresa di Povere Creature, che ha superato i 9 milioni. Sicuramente è un dato rilevante, e speriamo che Disney aumenti il numero di titoli in uscita nei prossimi anni. Già il fatto di essere tornati a questi livelli è una notizia molto positiva.
Per chiudere con il box office italiano, a proposito di chi continua a macinare risultati, It Ends With Us ha raggiunto i 3 milioni, un risultato già molto significativo. Credo che a questo punto possa chiudere tra i 3 milioni e mezzo e i 4. Poi c’è Deadpool e Wolverine, che si sta avvicinando ai 18 milioni, anche se potrebbe non raggiungerli. Resta comunque un ottimo risultato. Tra gli esordi segnalo anche Campo di Battaglia di Gianni Ameglio, che si conferma sui livelli de Il Signore delle Formiche di due anni fa, anche quello passato per il Festival di Venezia.
Quindi, se guardiamo i numeri di tanti film, non c’è molto di cui lamentarsi. Il problema, piuttosto, è cosa esce.

Davide Dellacasa

Mentre facevi questo resoconto, mi è venuto in mente un pensiero, anche perché nel weekend ci siamo un po’ scritti tra di noi, anche con i ragazzi della redazione di ScreenWeek, riflettendo su quanto fosse un titolo family. Pensavo alle cose che ci siamo detti. Il tracking negli Stati Uniti lo dava molto alto, ma non così tanto: se non ricordo male, c’era chi, in modo prudente, stimava meno di 100 milioni e chi ipotizzava i 100 milioni. Se ho capito bene, alla fine siamo andati oltre. Mancano ancora i dati definitivi, ma si inizia a parlare di 110 milioni. Poi, come dicevi, il tracking internazionale era più basso, e lì siamo arrivati vicino a quelle cifre, anche se i dati non sono ancora definitivi: si parla di un totale globale tra i 140 e i 145 milioni.
Per quanto riguarda Cattivissimo Me, non può essere che la sua tenuta, secondo me, sia spiegabile anche con il fatto che la data di uscita è stata ottima, ma non tutte le famiglie erano già tornate a casa o avevano voglia di andare al cinema a fine agosto. Forse è un film che continua a interessare le famiglie anche nelle settimane successive. In questo weekend, la presenza così forte di Cattivissimo Me, che negli Stati Uniti era già uscito prima, potrebbe aver sottratto una parte di quel pubblico family a cui Beetlejuice poteva aspirare.
Ora, non evocare Michele Casula anche tu, perché tanto viene qui e non può dircelo, anche se lo invitiamo! Che ne pensi? Potrebbe essere una spiegazione. Ho visto il film, in una sala alle 9 di sera, che non è certo l’orario ideale per genitori e bambini, ma comunque ce n’erano. Tant’è che mi ha sorpreso vedere dei trailer che normalmente non ti aspetteresti su un film che, secondo me, ha tutti gli elementi per attirare un pubblico family.

Robert Bernocchi

Era anche la speranza, e un po’ l’aspettativa, che Beetlejuice potesse attirare una parte di pubblico family. Ovviamente non lo sapremo con certezza, perché non abbiamo indagini specifiche disponibili. Sicuramente possiamo dire che, negli Stati Uniti, il film è risultato molto più family rispetto a da noi. Questo è un ragionamento piuttosto semplice, probabilmente legato al fatto che Halloween e l’atmosfera che lo circonda sono una tradizione molto family negli Stati Uniti. Da noi Halloween ha preso piede, ma non possiamo dire che sia al livello statunitense. Quindi, è difficile rispondere alla tua domanda. Sicuramente il fatto che ci sia un film family, come Cattivissimo Me, che fa ancora due milioni nel terzo weekend, può creare dei problemi. Su questo non ci sono dubbi. Però è complicato capire se, senza la concorrenza di Cattivissimo Me, i dati di Beetlejuice sarebbero cambiati significativamente. Forse sì, forse no. Resteremo con questo dubbio.

Davide Dellacasa

È difficile capire se, in assenza di Cattivissimo Me, quel pubblico sarebbe andato a vedere Beetlejuice. Mi viene da pensare che possiamo cambiare argomento, perché ci siamo scambiati un’intervista uscita questa settimana con Donna Langley, capo dei contenuti di Universal. Tra le varie cose interessanti che ha detto, c’è il fatto che oggi è cambiato il modo in cui le persone vanno al cinema: non vanno più semplicemente ‘al cinema’, ma vanno a vedere un film specifico. Quindi, non è detto che le persone che hanno scelto di vedere Cattivissimo Me, in sua assenza, avrebbero optato per Beetlejuice solo perché era l’unico film in sala quel fine settimana. Se vogliono vedere un film, lo scelgono in base al loro interesse, non perché è l’unica opzione disponibile.

Robert Bernocchi

L’intervista a Donna Langley conferma alcune cose che aveva già detto lo scorso maggio, e sono preoccupanti. Purtroppo, se lo dice lei, la preoccupazione è maggiore, perché ha un impatto profondo sulle scelte che Universal fa in termini di numero di film, sui budget dedicati, sia a livello produttivo che promozionale. Il fatto che abbia sostanzialmente ribadito temi e argomenti di cui aveva già parlato qualche mese fa dimostra che non ha cambiato idea, questo è certo. D’altra parte, speriamo sempre che si torni a un volume di film prodotti e distribuiti ai livelli pre-pandemia, ma è anche vero che lei dispone di dati che noi non abbiamo. Quindi è presumibile che le sue dichiarazioni siano fondate, purtroppo. In ogni caso, se questa è la sua visione, c’è poco da fare.

Davide Dellacasa

Donna Langley afferma chiaramente che non torneremo ai livelli pre-pandemia, quindi non ritorneremo ai numeri del 2019, per fare un esempio specifico di un anno pre-pandemia. A volte facciamo confronti anche con il 2018 o il 2017, e qualcuno ci critica per questo, dicendo che dovremmo smettere di confrontarci con un’era che non esiste più. Anche se continuiamo a considerare importante fare questi confronti per avere un riferimento, Langley adotta un atteggiamento molto razionale e ragionevole. Dice che gestiscono gli investimenti come un portafoglio di investimenti, diversificando tra generi e livelli di budget, e così via. Quindi, nonostante il suo messaggio indichi che non ci sarà un ritorno ai livelli pre-pandemia, sembra chiaro che la riduzione di prodotto è una parte della sua strategia.

Robert Bernocchi

Beh, mi sembra coerente. Se non si torna ai livelli di entrate cinematografiche precedenti, sia a livello di biglietti che di incassi economici, è normale che un’azienda debba ridurre gli investimenti.

Davide Dellacasa

Non so, però, perché Universal l’ho sempre vista come un’azienda molto dinamica. Come giustamente dice, cercano di raggiungere i consumatori dove si trovano, e la distribuzione digitale e lo streaming sono chiaramente una priorità. Tra parentesi, durante il periodo immediatamente successivo alla pandemia, Universal è stata una delle prime a considerare la flessibilità delle finestre di uscita: se un film ha successo, rimane più a lungo nelle sale e esce più tardi in digitale; se va male, esce prima. Ogni tanto hanno anche annunciato risultati positivi nella distribuzione in estero e nella vendita on-demand, sebbene non abbiano fatto lo stesso per i risultati negativi. Forse sono io che vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, ma non l’ho vista così negativa.

Robert Bernocchi

Ritornando al discorso sul confronto con il periodo prepandemia, è utile o meno? Purtroppo, se si guarda ai dati, le major stanno facendo uscire meno film rispetto al passato. Inoltre, ci sono situazioni contingenti, come il fatto che 20th Century Fox non esiste più e quindi è normale che Disney non produca lo stesso volume di titoli. Tuttavia, credo che il confronto con il pre-pandemia sia ancora importante. Il mercato cinematografico dà lavoro a molte persone e, se il mercato diminuisce e lo Stato continua a intervenire come ha fatto durante la pandemia, c’è un problema. Per esempio, il numero di schermi non è molto diminuito rispetto al pre-pandemia, ma se questi schermi devono condividere una torta molto più piccola, c’è un problema. Quindi, a mio parere, è necessario fare questo confronto con il pre-pandemia.

Davide Dellacasa

Sono d’accordo nel senso che comunque ci dà un riferimento, perché se no veramente ragionare sul mercato completamente vergine quando, se vuoi, il parco sale e il numero di operatori addetti ai lavori non è certo partito da zero nel 2021. Quindi sono d’accordo anch’io sull’utilità di tenere il confronto. È chiaro che siamo e continueremo a essere per ancora un po’ in un periodo di riassestamento del mercato e quindi bisogna trovare un nuovo equilibrio. Avere come riferimento il vecchio ha senso, ma si va verso un nuovo equilibrio. Penso che Universal sia stata una delle case che si è adattata al nuovo contesto in modo molto intelligente, perché poi anche lì non tutti i modi di distribuire i titoli vanno bene per tutti i contesti e per tutti i paesi in questo periodo storico, che non è ancora finito, perché chiaramente siamo in grande evoluzione.
Ha detto qualcosa anche sull’intelligenza artificiale, un tema di cui ogni tanto parliamo. Diciamo che è rassicurante il dire che la creatività deve restare in mano all’essere umano, mettiamola così. Mi sembra che su questo ci si allinei un po’ a uno standard comune. L’intelligenza artificiale, per gli studios, al momento è qualcosa che può intervenire per rendere più efficienti alcuni processi. Lei parla di doppiaggio, di alcune cose di post-produzione e via dicendo. Nessuno mi toglie dalla mente che sotto sotto, almeno qualcuno al suo interno, cioè senza licenziare la library a terzi, cosa che non farei mai, almeno legalmente, perché poi è chiaro che a destra e sinistra no, che addestrano le loro intelligenze artificiali con tutto quello che trovano, però che non stiano dando la library a nessuno per fare quello che invece alcuni editori fanno, scelta che non trovo intelligentissima, mettiamola così.

Robert Bernocchi

Sì, no, il discorso sull’intelligenza artificiale, secondo me, al momento non coinvolge la parte più creativa, che definirei sopra la linea, quindi registi, sceneggiatori e attori. Coinvolge però tutta una parte di lavoratori dell’industria, come hai giustamente detto, nel doppiaggio e nella post-produzione. Sono figure importanti e numerose. Pensiamo solo al valore del doppiaggio da noi e al fatto di avere la possibilità di doppiarsi il proprio prodotto dall’inglese in tutte le lingue, con tempi ovviamente molto più brevi. Questo potrebbe essere anche positivo a livello creativo e culturale, nel senso che il doppiaggio che ne risulta è basato sulle voci originali degli attori e quindi, paradossalmente, potrebbe essere più fedele di un doppiatore in carne e ossa.
Tuttavia, in termini di posti di lavoro, l’intelligenza artificiale rischia di avere un impatto molto grande. Poi, sulla creatività, magari ne riparliamo tra qualche anno, ma intanto, già così, l’influenza dell’intelligenza artificiale rischia di essere notevole.

Davide Dellacasa

Sì, sì, no, ma infatti la rassicurazione è relativa. Al momento, dal punto di vista creativo, fermo restando che bisogna anche considerare quanto chi si occupa dello sviluppo del prodotto, cioè i registi, gli sceneggiatori e via dicendo, potrebbe essere influenzato. Penso, ad esempio, alla necessità che un regista potrebbe avere di uno storyboard artist per creare lo storyboard di un film. Ora potrebbe provare a farlo da solo con l’intelligenza generativa. Anche questo ha un impatto occupazionale importante, se non addirittura creativo. Quindi, sì, è una rassicurazione, ma è una rassicurazione relativa e a scadenza.

Robert Bernocchi

Concordo perfettamente e devo dire che questa settimana una notizia che mi ha impressionato molto e che trovo preoccupante, ma non totalmente inaspettata, è che, a proposito del tracking di cui parlavamo prima, è uscito il tracking per l’esordio americano di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Il film arriva in sala il 27 settembre e, secondo Hollywood Reporter, rispetto a quanto indicato da alcune società di ricerca, i numeri sono un po’ diversi ma comunque sempre sotto i 10 milioni per il primo weekend: qualcuno parla di 5 milioni, altri tra i 6 e gli 8. Tuttavia, per un budget di 120 milioni, questi numeri sono assolutamente negativi. Inoltre, Coppola si avvale della distribuzione di Lionsgate, ma le spese di promozione sono a suo carico, il che rende la situazione ancora più critica.
In un anno in cui operazioni simili, come quella di Horizon di Kevin Costner, hanno portato a risultati probabilmente un po’ più alti rispetto a quelli che si prevede per Megalopolis, ma comunque decisamente bassi rispetto agli investimenti, la situazione è allarmante. La differenza è che Kevin Costner potrebbe avere un accordo con le banche per ripagare questi investimenti con i suoi futuri guadagni come attore, mentre per Coppola non sono chiari i dettagli su come risolverà la situazione.
Anche nel contesto del cinema indipendente, con registi coraggiosi che investono cifre del genere attingendo dal proprio patrimonio, la situazione è preoccupante. Non è comune sentire di registi che investono personalmente in questo modo, ma forse c’è stata un po’ di hubris nel non considerare che se nessuna società tradizionale di produzione o major ha voluto investire in questi progetti, forse c’era qualche ragione valida nella loro scelta.
Questo ragionamento potrebbe estendersi anche a molti film italiani che vengono definiti indipendenti, anche se la terminologia a volte può essere poco precisa. Tanti titoli non hanno mercato, ma vengono realizzati perché fino ad ora è stato più facile grazie ai contributi statali. Nei prossimi anni, potrebbe essere meno facile ottenere questi contributi, e questo è un ragionamento che dobbiamo fare tutti. Ad esempio, tra le nuove uscite di questo fine settimana c’è Taxi Mon Amour, un film di un regista alla sua quarta opera, non un esordiente, che è passato alla Giornata degli Autori di Venezia vincendo il premio del pubblico, ma che non ha incassato neanche 10.000 euro. Dobbiamo riflettere su queste cifre senza puntare il dito contro nessuno, ma considerando che il mercato attuale rende davvero difficile molte operazioni indipendenti.

Davide Dellacasa

Ma sai, al di là del pensiero su Megalopolis, che evidentemente è un film travagliato per tanti motivi e lo sarà fino all’uscita e anche dopo probabilmente, penso che le cose che hai detto aprano un discorso molto ampio. Noi lavoriamo, anche se io e te lavoriamo ai margini, più come osservatori o nel marketing, quindi lavoriamo in un momento successivo, ma siamo comunque coinvolti nell’intorno di un’industria definita creativa. È chiaramente un’industria creativa, e spesso, soprattutto in Europa e in Italia, nel dibattito si tende a mettere l’accento sulla parte creativa, che nel nostro caso si traduce in autorialità. Tuttavia, è importante considerare chi attribuisce questa creatività e autorialità, perché spesso è un po’ autoriferita e non sempre universalmente riconosciuta, nonostante sia complicato arrivare a una definizione universale di creatività e autorialità.
Tra le industrie creative o i settori che si occupano di creatività, la parola ‘industria’ si adatta bene al cinema, perché essere creativi con un pennello e una tela costa meno e richiede meno risorse finanziarie e umane rispetto alla realizzazione di un film. Come abbiamo sempre detto, il dialogo tra l’anima creativa, che possiamo sintetizzare nel regista, e l’anima produttiva del cinema, è fondamentale. Questo equilibrio è spesso delicato e può portare a risultati sia positivi che negativi. Non è detto che un’eccessiva attenzione ai costi e al controllo finanziario produca automaticamente risultati di qualità scadente. Ci sono molti casi in cui, spostando l’ago della bilancia troppo verso una libertà creativa senza limiti, si possono ottenere risultati problematici.
Ora, non so se questo sia il caso di Megalopolis. Chiaramente, Coppola ha creduto fortemente in questo progetto, ma il cinema rimane un equilibrio molto delicato, soprattutto quello che va in sala, incassa e deve portare dei risultati, restituendo valore alla parte industriale. È vero che ci sono tantissimi casi di titoli che purtroppo non ottengono il riconoscimento che meriterebbero. Tuttavia, il confine tra opinione soggettiva e qualcosa che abbia un minimo di oggettività è talmente labile che diventa difficile discuterne in modo definitivo.

Robert Bernocchi

In questo discorso, credo sia interessante citare la problematica che c’è stata al Festival di Venezia riguardo alla difficoltà dei giornalisti nell’accesso ai talent. Questa polemica è interessante, secondo me, ma non del tutto corretta e non affronta la questione in modo completo. È evidente che la polemica nasce da un punto di vista, che possiamo definire culturale, di libertà di parola e di possibilità di interagire con gli artisti. Tuttavia, credo che ormai non sia un problema che nasce oggi. È un aspetto che esiste da tempo e che riflette una tendenza più ampia nel modo in cui i festival e gli eventi gestiscono l’accesso ai talent e le interazioni con i media.

Davide Dellacasa

Lo sappiamo, è un problema costante da diversi anni. Tutto nasce dal fatto che molti mass media tradizionali non sono più seguiti come erano un tempo. Quindi, per chi deve operare in un contesto di grandi investimenti, e soprattutto deve recuperare questi investimenti sul mercato e non grazie a sostegni statali, è naturale fare delle scelte che portano a privilegiare influencer rispetto ai giornalisti dei quotidiani tradizionali. Questo non garantisce ovviamente il successo del film, ma in un contesto di mercato come quello italiano, dove ormai, a parte il Corriere della Sera, nessun quotidiano vende 100.000 copie al giorno e i numeri sono in costante diminuzione, mi sembra comprensibile che si punti anche su altre realtà.
Fermo restando che possiamo discutere se alcune interviste, tra parentesi giornalistiche, siano effettivamente tali e se siano una grande ricerca di contenuti. In alcuni casi, mi sembra che le interviste siano molto accomodanti, simili a quelle fatte da influencer. Quindi, non ne farei esattamente una questione di libertà di stampa.

Davide Dellacasa

Lo sappiamo, è costante da diversi anni, nasce tutto dal fatto che magari molti mass media tradizionali non sono più seguiti come erano un tempo e quindi per chi deve fare in un contesto appunto di grandi investimenti e soprattutto deve ritornare poi sul mercato e questi investimenti si devono ripagare per il mercato, non perché ci sono magari dei sostegni statali, questo è naturale che porti poi a fare delle scelte per cui magari rispetto ad avere il giornalista del quotidiano tradizionale prendi un influencer. Questo non garantisce ovviamente che il film sarà un successo però in un contesto di mercato penso alla realtà italiana in cui ormai, a parte il Corriere della Sera, nessuno vende 100.000 copie di un quotidiano al giorno e sono ovviamente numeri in costante diminuzione, mi sembra comprensibile che si punti anche su altre realtà e non necessariamente giornalisti. Fermo restando che possiamo discutere se alcune interviste, tra parentesi giornalistiche, siano effettivamente tali e siano una grande ricerca, insomma, in alcuni casi mi sembra che siano molto accomodanti come può essere un influencer, quindi non ne farei esattamente una questione di libertà di stampa.
Io penso che i giornalisti abbiano indubbiamente ragione nel lamentare questo stato di cose e penso anche che la cosa sia pure un po’ peggio di come l’hai raccontata te nel momento in cui punti l’attenzione soltanto su, se vuoi, i giornalisti che mi viene da dire tradizionali o sulla tiratura del Corriere della Sera o simili, perché intanto il discorso si inserisce in un discorso molto più ampio che è il problema dell’editoria tutta e non solo chiaramente di quella di cinema. Anche qui nel podcast abbiamo parlato, mi ricordo la puntata con Antonio Moro, insomma, dove abbiamo sviscerato a lungo il problema che vive l’editoria online. Io nell’editoria online metto l’editoria tradizionale che è in calo, ancora mai da anni, ma anche quella online che soffre e anche quella online che si sposta sui social media dove se seguiamo anche noi, quando sempre di contenuti si tratta, il pensiero di Donna Langley nell’andare a cercare gli utenti dove stanno, è chiaro che gli utenti oggi stanno sui social media e non sui siti e non sulla carta, almeno questa grande maggioranza degli utenti. Ma il problema non è soltanto il dove stanno, ma anche il tipo di contenuto che consumano. Insomma, non è certo la prima volta che mi ritrovo a dire ‘non legge più nessuno’ e poi è chiaro che ‘non legge più nessuno’ è un’esagerazione, ma le persone che leggono sono sempre di meno e le persone che danno l’attenzione a un pezzo scritto di 7, 8, 9, 10, 12 minuti che magari contiene un’intervista sono sempre di meno. Ma siccome pubblico contenuti online da 25 anni, se non di più, e ho vissuto le varie ere della pubblicazione di contenuti online, non è solo che leggono sempre di meno, ma sono sempre di meno anche le persone che guardano i contenuti di approfondimento e un’intervista è un contenuto di approfondimento. Il problema che viene raccontato e viene lamentato dai giornalisti trova, se vuoi, una ragione di, ahimè, almeno, noi veniamo da una generazione diversa e non solo da una generazione diversa, siamo anche, comunque, no? Rappresentiamo, se vuoi, quella parte di micchia, di popolazione che è sempre stata interessata a un certo tipo di approfondimento che si è ridotta col tempo. Ma non solo che si è ridotta col tempo, perché oggi l’accesso a questi talent, se ci pensi, è molto più immediato. Ho bisogno di un’intervista alla star di turno, quando la star di turno si racconta quotidianamente sui suoi social, cioè ne ho davvero bisogno. O forse seguo la star direttamente e è forse l’80 al 90% delle cose che mi può raccontare, tra virgolette già le so. Se a questo aggiungi che le interviste sono, se vuoi per forza di cose, costrette in format sempre più stretti, sono rare le interviste in cui un giornalista ha veramente la libertà di spaziare con una star a tutto tondo e quindi di arrivare a qualcosa di interessante. È chiaro che il giornalista a Venezia e chi si lamenta di un trend che, come dici tu, è molto più esteso e dura da molto più tempo, ha perfettamente ragione, ma dall’altra parte c’è una realtà completamente diversa rispetto a quella di vent’anni fa, quando ai festival si facevano sicuramente molte più interviste. Sull’intervento degli influencer c’è un tema ancora più largo, ma potremmo anche toglierli un attimo dall’equazione. Due star che ballano, fanno un balletto sul carpet di Venezia e generano oramai 10, 20, 30, 40, 50 video che fanno forse 100, forse 150, non lo so, non li ho contati, ma ho visto molti video di Clooney e Pitt che accennavano questo balletto sul carpet e si facevano la foto con i fotografi e via dicendo, ne abbiamo parlato anche la settimana scorsa dicendo chissà se una visibilità del genere avrebbe convertito, due star che fanno quel balletto comunque raggiungono milioni di utenti e nel raggiungere milioni di utenti se non altro li portano a conoscenza che esiste quel film. Che converta in un altro discorso. Non c’è nessuna intervista che raggiungerebbe quei numeri, neanche se le suscita senza viaggi. Lì c’è un tema, perché poi la promozione è fatta di raggiungere quanti più utenti possibile per far sapere in questo enorme rumore di fondo che è l’informazione di oggi che esiste quel film per portarlo fuori dall’indifferenza e chi va al cinema magari e chi siamo sicuri che vedrebbe quel film più o meno lo sa già che c’è, quindi c’è un tema per raggiungere un pubblico più vasto rispetto agli appassionati che magari seguono Blu-Ray e Pitt sui social e quindi non hanno neanche bisogno di sapere molto di più. Insomma è un discorso molto complicato, è chiaro che come l’intelligenza artificiale sono tutte cose che, come lo streaming… Continuiamo, da quando è arrivata Internet, a vivere in un’epoca di ridefinizione di tutta l’industria dei media e anche di come sta evolvendo il mondo del giornalismo, che secondo me ha delle sfide, cioè, hai voglia, preoccupanti e più preoccupanti di quelle del mondo del cinema.

Robert Bernocchi

Sì, ecco, devo dire che il dubbio che ho avuto su questa polemica è che, al di là del fatto che fosse giusta o sbagliata, se avessero ragione o meno, non ho visto sinceramente delle soluzioni concrete. E il fatto che questa polemica sia nata, diciamo, durante il Festival di Venezia è mediaticamente comprensibile, perché ovviamente funziona bene. Tuttavia, non mi è chiaro perché il Festival di Venezia e il suo direttore dovrebbero risolvere questo problema e come dovrebbero dire ai film che invitano di garantire un accesso di almeno X ore ai giornalisti. Non è il lavoro di chi organizza un festival. Quindi ho dei dubbi sul fatto che, al di là della questione, che come giustamente dici tu è molto più ampia, questa polemica abbia portato a qualcosa di concreto.

Davide Dellacasa

Chiaramente, ha portato forse un po’ di attenzione sul problema, come gliela stiamo dando noi, se vuoi. Tuttavia, siccome il problema è più ampio, la soluzione non è quella del festival. Nel senso che sì, è obbligatoria la conferenza stampa; ok, dalla prossima edizione potrebbero rendere obbligatorio che ogni star che fa red carpet conceda anche 10 interviste ai giornalisti accreditati a estratti assortiti. Mettiamo anche che facciamo questa cosa, no? Di quei estratti assortiti per avere un metodo un po’ più democratico di qualcuno che sceglie. Però, non risolve il problema; è un paliativo, è una cura che non cura. Risolve forse il sintomo per qualche tempo, neanche, perché poi non cambia certo la vita dei giornalisti, ma risolve il sintomo per qualche tempo.

Robert Bernocchi

Ma io scusami, però non sono convinto che questa soluzione sia applicabile, perché poi la produzione del film ti fa notare che non è il tuo lavoro decidere, è il tuo festival, intendo.

Davide Dellacasa

No, ma sono d’accordo con te.

Robert Bernocchi

Se poi uno perde un film molto atteso perché ha cercato di imporre delle interviste, credo che sarebbe un peccato per tutti. Una proposta del genere, Pit e Clooney avrebbero detto no, scusate, decidiamo noi. Sicuramente non per estrazione a sorte, perché ti può capitare chiunque a quel punto. Per chi cerca di controllare l’informazione.

Davide Dellacasa

La mia era un’affermazione, anche se fosse, e sono d’accordo con tutti i problemi che evidenzi, ma non risolve niente, no? Non è una soluzione, neanche se la facessero tutti i festival del mondo; a parte la sua infaticabilità, non sarebbe una soluzione. Il problema del giornalismo è purtroppo più ampio ed è uno dei problemi che hanno un impatto non solo sul mondo del cinema—che per carità è la nostra passione e il nostro lavoro, e quindi ci accaniamo—ma è un problema, come dicono persone ben più informate di me, per la democrazia e ben più ampio di questo. Non può certo essere risolto da un festival del cinema, o ancor meno da chi si occupa della promozione dei film, che deve perseguire l’obiettivo di arrivare al pubblico con il messaggio più funzionale agli obiettivi di comunicazione del film. Se l’obiettivo è raggiungere in Italia 20 milioni di persone, probabilmente non basta una o dieci interviste, che magari parlano per carità e hanno una loro nicchia, ma anche lì il confronto è sempre in un mondo di risorse scarse. Alla nicchia ci pensi se hai tempo e modo, e sappiamo bene che non sempre c’è tempo e modo.

Robert Bernocchi

Infatti, come giustamente dici tu, il problema è più ampio e riguarda anche i contenuti prodotti dai mass media, che eventualmente non riescono però a trovare un pubblico sufficiente. Io mi concentrerei più su questo aspetto, perché se si trovasse effettivamente un pubblico sufficiente, i Pit e i Clunay sarebbero più disponibili. Se non loro, qualche star meno celebre, ma insomma, alla fine, di fronte a una platea enorme nessuna star si rifiuta di partecipare. Tant’è che, quando parliamo di mass media tradizionali, le star che vanno ai programmi televisivi sono ancora tante; non mi sembra che in quel settore ci sia crisi. Evidentemente ritengono che sia comunque una cosa utile e che porti dei risultati. Se poi altri tipi di giornalismo, soprattutto la carta stampata, non riescono più a trovare un pubblico sufficiente, il problema è che, in realtà, più che la star, è ciò che si vuole fare o non fare.

Davide Dellacasa

Sì, esatto, sono d’accordo. È un po’ come sta evolvendo l’informazione in generale, e come viene percepita e fruita dal pubblico. Un certo tipo di contenuto di approfondimento, come un’intervista, lo considero appunto un contenuto di approfondimento, a meno che non si tratti di uno scambio superficiale su dettagli come il colore dei capelli o il vestito, che può trovarsi in un breve video di 10-15 secondi sui social. Questi contenuti faticheranno a trovare il loro pubblico. Probabilmente anche il nostro podcast oggi faticherà a trovare il suo pubblico, visto che siamo arrivati quasi a un’ora e quindi nessuno avrà ascoltato quest’ultima parte, un po’ come i titoli di coda.

Robert Bernocchi

Forse hanno skippato qualcosa di precedente.

Davide Dellacasa

Dovremmo mettere anche noi la scena dopo i titoli di coda, così almeno qualcuno resta seduto in sala ad ascoltarci. Direi che è abbastanza per questa settimana. Buona settimana a tutti.

Robert Bernocchi

Assolutamente, buona settimana a chi ci ascolta.

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