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Il presente e il futuro della produzione italiana

Il boom delle produzioni è destinato a durare? E come si lavora con le piattaforme? A queste e altre domande, hanno risposto Iginio Straffi, Fondatore e CEO del Gruppo Rainbow, e Alessandro Usai, Amministratore Delegato del Gruppo Colorado Film…

La prima cosa che volevo chiedervi riguarda questo momento della Produzione, che per una serie di fattori vive una forte crescita. Secondo voi sono livelli di produzione che manterremo nei prossimi anni o sono frutto di congiunture, soprattutto di investimenti delle piattaforme che potrebbero diminuire nei prossimi anni?

Iginio Straffi: Penso che l’orizzonte a breve termine (due-tre anni) sia ancora abbastanza positivo, perché soprattutto le piattaforme continueranno a investire in prodotti di vario genere. E poi? Quando ci sarà un consolidamento e sarà chiaro chi ha vinto tra le piattaforme, allora forse ci sarà un ridimensionamento. Sempre che non venga meno, con nuovi governi, la spinta del tax credit, perché è questa che ha generato l’ondata di produzioni italiane, così come di quelle estere, che vengono a girare in Italia per beneficiarne. Insomma, potremmo definire questo momento una bolla, dovuta a una serie di congiunture, ossia l’arrivo delle piattaforme che devono imporsi sul Mercato, unite alla volontà politica di dare finalmente più importanza all’industria culturale e dell’audiovisivo, che quindi facilita le produzioni. Arrivando al cuore della domanda, non credo che tra cinque anni l’orizzonte sarà lo stesso di adesso.

Alessandro Usai: Sono d’accordo. Penso anche, come dice qualche osservatore attento, che come sempre dipenderà anche dai risultati. È chiaro che se l’Italia realizzerà dei prodotti su Netflix, Disney Plus o Amazon che fanno numeri importanti e diventano dei fenomeni globali, allora è probabile che arriveranno ulteriori investimenti. E se invece risulteremo perdenti a livello di sistema produttivo del Paese, gli investimenti si sposteranno magari in Francia o in Germania. Questo è un ulteriore elemento da tenere in considerazione. E qui torniamo all’importanza dei risultati, che poi è la base di tutto. Se non ci sono i risultati, l’unica cosa che puoi sperare, detta brutalmente, è nei sussidi. Quindi, o porti dei risultati, oppure devi sperare nella benevolenza di qualcuno. E non mi aspetto molta benevolenza dalle piattaforme, mentre per quanto riguarda lo Stato, se guardiamo gli scenari macroeconomici che stiamo affrontando (come i costi dell’energia o una popolazione che invecchia, con il problema di pagare le pensioni), non mi sembra che il nostro Paese abbia un eccesso di risorse e quindi non è uno scenario semplicissimo. Invece, il prodotto che funziona, quello ha un pubblico verosimilmente si continuerà a fare. Ovviamente, i budget magari diventeranno automaticamente un po’ più bassi, perché chi investe deve mettere più risorse. Però il film che si sarebbe fatto si farà lo stesso. Ma non basta sovvenzionare la produzione per avere automaticamente come risultato la domanda. Il problema è che la domanda è un tema che non ci si pone, probabilmente perché sarebbe più un discorso per il Ministero dello Sviluppo economico che non il Ministero della Cultura. In effetti, ha fatto molta più fatica il tax credit sulla distribuzione rispetto a quello sulla produzione, e già questo la dice lunga. Se invece il contributo venisse legato a un atto di consumo, sarebbe una cosa positiva e che varrebbe per tutte le tipologie di cinema, compreso quello d’autore.

Per questa ragione, diventa ancora più importante conoscere i risultati di tutti i prodotti per capire cosa funziona e cosa no. Poi, quando invece ci sono risultati chiaramente positivi di serie o film, se ne parla meno, perché magari non sono quei titoli di prestigio di cui si tende a parlare nei convegni…

I.S. Voglio raccontare una cosa avvenuta in altri tempi, quando non c’era questo tax credit e si produceva molto di meno, così come si esportava ancora meno. Nel 2011, Riccardo Monti, allora presidente dell’Istituto del commercio estero, mi fece vedere una relazione, in cui l’export dell’audiovisivo tv e dei film italiani al 57% era rappresentato da prodotti Rainbow. Tutto il restante 43% proveniva da altre 1.700 società nazionali, da piccole aziende specializzate in documentari a Mediaset e Rai.

In questo senso, c’è questo mantra che ripetono tutti, che i prodotti Netflix escono in contemporanea in 190 Paesi. Ma poi non è detto che si venga visti molto, anzi, perché la maggior parte dei prodotti italiani nelle top ten mondiali non ci finisce proprio…

A.U. Devi avere un prodotto che è in grado di andarci. Questo era il caso di A Classic Horror Story, pensato con l’idea che l’horror ha una nicchia piccola di fan, ma che questi appassionati siano presenti in tutti i Paesi del mondo. Non a caso Iginio ha scelto Colorado come società da acquisire, perché noi facciamo intrattenimento. Io dico sempre che la cultura mi piace, tanto che ho un dottorato di ricerca e ho studiato molto nella vita, ma faccio intrattenimento. Se un prodotto è anche cultura, tanto meglio, ne sono felice. Però, è in primis qualcosa che deve divertire e intrattenere un target di pubblico, che sia i bambini, target che vede il nostro gruppo in posizione di leadership, o gli adulti, quando ci si riesce. Certo, poi non è che ci si riesce sempre, però concepire il prodotto dall’inizio con quella idea è proprio un modo diverso di impostare tutto il processo produttivo e creativo.

I.S.: Ti dirò di più. Mi ricordo quando disegnavo e scrivevo fumetti, all’epoca pubblicavo le mie storie con Bonelli e la Comic Art, mentre c’erano degli aspiranti fumettisti più autoriali che pubblicavano le loro storie su Frigidaire, Frizzer o altre Fanzines. E lì a volte alcuni editori davano spazio a questi nuovi autori, ma senza pagarli, dando la possibilità di pubblicare a persone che magari facevano i grafici o altri lavori. Io, prima di tutto, mi ritengo un professionista, quindi Bonelli mi paga e io disegno e scrivo. Ma l’obiettivo è avere successo, soprattutto a livello internazionale. Visto che le sensibilità culturali nel mondo sono molto diverse, questa è la cosa più difficile che esista.

Quindi, secondo me, magari all’epoca si accettava di pubblicare e non esser pagato pur di poter disegnare e scrivere quello che volevi, senza pensare a chi lo deve leggere. E’ lo stesso che avviene con certi film, pensando “è una bella storia, anche se è solo per i miei quattro amici che conosco fin da piccolo”, e poi riesce a produrla perché c’è il tax credit e i fondi pubblici. Però, è ovvio che non si punta a fare una cosa difficile: produrre una storia universale che possa catturare la testa e il cuore del pubblico di tutto il mondo. Siccome a nessuno piace confrontarsi con le sfide difficili, perché puoi prendere delle legnate sui denti, chiaramente si preferisce fare la storia più semplice e finanziata con soldi pubblici. Quella è sempre stata una strada che non mi ha stimolato, perché è meglio prendere la legnata e ammettere di aver sbagliato, ma avere l’ambizione di parlare a un pubblico globale, di produrre qualcosa di più sfidante.

A.U: E’ curioso, rimanendo in Italia, pensare alla lezione della musica pop, un settore in cui i costi sono più bassi, ma che è molto meno sostenuto, quindi per sopravvivere sei costretto a confrontarti con il pubblico. Se guardiamo alle top ten nazionali, per esempio su Spotify, nelle prime dieci posizioni magari troviamo otto italiani e poi ti vengono fuori pure i Maneskin della situazione, che diventano delle star mondiali. In quel settore, per necessità i musicisti hanno dovuto confrontarsi con il pubblico. Nell’audiovisivo, secondo me la modalità che molti stanno adottando alla lunga diventerà deleteria. Io cito sempre i due aggettivi che vengono usati molto da tanti nostri colleghi, che sono ‘urgente’ e ‘necessario’. Quando in un’intervista sento dire “questa è una storia necessaria”, mi chiedo: ma necessaria per chi?

Che poi è paradossale, perché i tempi di realizzazione di un film non ti permettono di fare cose ‘urgenti’, visto che un progetto lo inizi oggi e lo vedi finito magari tra due anni…

A.U.: Se fosse così necessario e urgente, il pubblico percepirebbe questa urgenza e questa necessità, accorrendo in massa a vederlo…

Ultimamente abbiamo visto i risultati di un vostro lavoro durato anni, sia con Netflix (con la serie live action delle Winx) che con Amazon, grazie alla serie dei Me contro te. Come si lavora con queste piattaforme? E quali le differenze maggiori rispetto a un partner italiano?

I.S.: Io posso dire che Netflix è un partner molto attento e partecipe al lavoro di sviluppo e di realizzazione, sia nei cartoni animati che nelle serie live action. Ci sono dei producers che seguono il progetto in tutte le sue fasi e che sono degli interlocutori molto preparati. Se penso alla mia esperienza con i broadcaster tradizionali, sono due mondi diversi, nel senso che questi ultimi delegano molto di più alla società di produzione, che è responsabile del prodotto finale. Detto questo, come ripeto, noi siamo contenti dell’esperienza e continueremo a lavorare con le piattaforme, perché su alcune cose hanno creato un’esperienza positiva, oltre al fatto che ti danno accesso a delle informazioni confidenziali, su cosa funziona meglio per loro rispetto ad altre cose simili ma che non hanno funzionato. Quindi, si riesce a perfezionare il prodotto, sempre nell’ottica di un confronto con il pubblico.

A.U.: Aggiungo che, un po’ per tutte le piattaforme, c’è una differenza quando il prodotto è considerato un Original. In quel caso, la piattaforma, qualunque essa sia, interviene proprio dalla fase iniziale, rispetto a quando è un acquisto o preacquisto, che è un po’ più simile al vecchio processo a cui eravamo abituati, dove il produttore è più autonomo nei rischi e nei benefici e di fatto vende un prodotto finito, su cui al massimo loro ti danno dei consigli. Ma quando è un Original, proprio perché nasce e si sviluppa con loro, ti forniscono molte più indicazioni.

I.S.: Sono d’accordo, in effetti quando c’è un acquisto in cui investono meno c’è un processo simile a quello dei broadcaster linear, insomma delegano al produttore. Invece il discorso cambia soprattutto per gli Original.

A.U.: Noi abbiamo avuto esperienze molto diverse, non ne faccio una questione di positive o negative. Per esempio, abbiamo avuto casi di pre-acquisto, come è stato per I me contro te, dove onestamente insieme ai Me contro te abbiamo fatto quasi tutto e con molta autonomia. Invece, Il mio nome è vendetta sarà su Netflix dal 30 novembre, è un revenge movie d’azione nato come Original. È stato un procedimento molto più lungo, con tante revisioni di sceneggiatura e di montaggio, con una grande cura dei minimi dettagli. C’è un’attenzione molto forte, che però secondo me è un fatto positivo. Ecco, il modo di fare le cose è molto, molto attento. L’unica cosa su cui si soffre un po’, è che sarebbe utile a tutti avere un maggiore accesso ai dati di performance dei prodotti, ma mi rendo anche conto che l’informazione è potere. Però l’informazione è anche quella che ci consente di dire che una cosa ha funzionato bene su quel target, un’altra invece no. Con la sala avevamo quel vantaggio, era tutto molto chiaro, anche con l’Auditel ce l’hai. Sarebbe utile averlo anche qui.

A proposito, vista la vostra attività, vi chiedo di una mancanza del mercato italiano che, nonostante faccia 250 film all’anno, fatica moltissimo a realizzare lungometraggi di animazione. Secondo voi c’è un problema strutturale? E’ il pubblico che magari è un po’ più diffidente verso i prodotti italiani rispetto a quelli statunitensi? O semplicemente non si è riusciti a trovare il prodotto giusto per il pubblico italiano negli ultimi anni?

I.S.: Il problema maggiore sta nei costi per realizzare un film d’animazione che abbia una dignità cinematografica, perché anche senza essere il top di gamma occorrono comunque almeno una ventina di milioni, anche solo per reggere il grande schermo, non certo perché siano sufficienti per creare qualcosa che assomigli vagamente al prodotto della Pixar o della DreamWorks. Di solito, 20 milioni il cinema italiano non se li può permettere, non si trovano i fondi. I francesi riescono a fare delle produzioni di questo tipo mettendo insieme 2 o 3 Paesi europei o il Canada, ma richiedono tempo e pazienza, oltre che norme molto rigide per ottenere i contributi e che rendono difficile per realtà come la nostra collaborare con loro senza perderci.

Si è discusso molto sul fatto che tante case di produzione italiane importanti siano state acquistate da aziende estere, mentre il vostro è uno dei pochi esempi di azienda italiana che acquista un’altra azienda italiana. Pensate che le aziende italiane che sono acquistate da società straniere siano di fronte a un’opportunità o un rischio, considerando che il controllo non è più italiano?

I.S.: Diciamo che la vedo un po’ in tutti e due i modi, nel senso che c’è una mancata opportunità, quella di non avere in Italia una società che abbia anche un certo potere contrattuale con le controparti, così come una serie di I.P. e servizi di qualità, tali da poter rappresentare il grosso della produzione dell’audiovisivo italiano, come avviane per alcune grandi realtà all’estero. Questa cosa non è facile, perché ci vuole una congiuntura per cui, dalla politica al sistema finanziario ai produttori stessi, tutti si mettano d’accordo per sostenere un capofila e poi hanno tutti dei benefici nel far parte di questa struttura. Però non vedo necessariamente un rischio da un’acquisizione. Devo dire che, nella maggior parte dei casi, queste società estere che hanno acquisito aziende italiane continuano a operare in Italia, a mandarle avanti in autonomia e a far lavorare la gente, perché a loro interessa ottenere un fatturato dall’Italia, quindi non hanno ne voglia né la capacità di cambiare l’organizzazione italiana o controllarle maggiormente rispetto a quello che facevano prima. Quindi, a volte credo che qualche società abbia avuto benefici nel far parte di un grosso gruppo europeo o internazionale, che ha facilitato i rapporti con le televisioni inglesi, tedesche e francesi, dove magari hanno sede queste case madri. E un discorso che c’è in tutte le altre industrie. Noi siamo un esempio di un’azienda che ha comprato società sia in America che in Italia e ne stiamo acquistando altre.

A.U.: C’è un ragionamento che non è stato fatto finora, che a fronte di miliardi di euro investiti nell’audiovisivo, tutto è sempre volto al singolo prodotto, senza una strategia industriale dietro. Se lo Stato non investisse i soldi nell’audiovisivo, sarebbe una scelta, ma visto che ne investe così tanti, viene da chiedersi se non varrebbe la pena investire non solo sul prodotto, ma anche sui produttori, per farli diventare al livello di Gaumont, Beta o Fremantle. Potrebbe aver senso, come dice Iginio, favorire l’aggregazione di società che sono grandi in Italia ma solo medie a livello europeo, addirittura piccole se confrontate a quelle americane o a livello mondiale, ma che invece messe assieme potrebbero avere un ruolo molto più importante. Quella è una logica diversa rispetto a finanziare il singolo film, basti pensare che da noi ultimamente hanno introdotto la limitazione di budget sui selettivi (che non possono essere richiesti per budget oltre i 4 milioni, con un paio di eccezioni a sessione, NdR). Noi abbiamo un lungometraggio, che coproduciamo con Vivo Film, e che inizia le riprese il primo novembre, tratto da un importante libro israeliano. E’ tutto girato in lingua inglese, coerentemente con il fatto che è una storia internazionale, ambientata nel periodo in cui nasceva lo Stato di Israele, con persone che venivano da tutta Europa. Siamo arrivati al paradosso che, per poter sperare di usufruire del finanziamento selettivo del Ministero, abbiamo dovuto tagliare il budget del film, che era di 5 milioni, e farlo arrivare a 4, altrimenti non avremmo potuto ambire a un finanziamento consistente. Scelte di questo tipo sono autolesioniste. Stiamo facendo 300 film con budget bassi, che non hanno nessuna chance di funzionare, mentre forse sarebbe meglio fare 30 film da 10-15 milioni. Oppure finanziare alcune operazioni industriali, come dicevo prima, anche se mi rendo conto che è più una questione da Ministero dello Sviluppo economico. D’altronde, il pericolo è che, se la testa della società non è qui, si fa in fretta a cambiare destinazione.

Sì, basta che magari gli incentivi statali diminuiscano o che la casa madre abbia qualche problema economico e magari non licenzia in casa, ma nei Paesi esteri…

A.U.: Possiamo vedere cosa è successo in questi anni alle major in Italia, dopo magari una fusione che avveniva negli Stati Uniti e in breve tempo si chiudeva tutto. Per far sì che Rainbow prenda una decisione del genere in Italia, a Iginio lo devono legare. Questa è una tendenza che l’Italia ha vissuto in quasi tutti i settori economici e in maniera molto rilassata. Probabilmente, troppo rilassata.

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.

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