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Hollywood e la “tirannia del politicamente corretto”

Ha fatto molto discutere un articolo sulla difficoltà dei maschi bianchi di trovare lavoro a Hollywood. Ma è veramente così? O la realtà è un po’ più complessa?

Come nascono le polemiche? Di solito con i punti di vista ‘estremi’ e ‘catastrofici’. In questo caso, tutto parte da questo articolo di Peter Kiefer and Peter Savodnik. Due autori che non hanno esperienza nel giornalismo cinematografico (Kiefer ha lavorato molto per l’Hollywood Reporter, ma occupandosi di politica e altri argomenti extracinematografici), cosa che, a dire il vero, non deve per forza essere vista come un difetto (perché magari permette loro di essere più liberi e onesti nei giudizi, rispetto a chi vive nel settore e non può permettersi di far arrabbiare troppo l’ambiente).

Ovviamente, l’articolo ha destato scalpore ed è stato ripreso da tante realtà, anche in Italia (ne parlo meglio sotto). Il problema è che quello che dovrebbe essere raccontato come un momento di cambiamento (con i suoi pro e contro), viene descritto invece come una caccia alle streghe.

Per esempio, viene ripetuto fino alla nausea che la gente ha paura di parlare. “Come sopravvivere alla rivoluzione? Diventando il suo sostenitore più convinto. ‘Il miglior modo di difendersi contro il woke è quello di superare in woke tutti, compreso il woke stesso””.

Vi rivelo un ‘incredibile’ segreto: la gente ha sempre avuto paura di parlare e non solo nel nostro settore. Chiunque abbia mai lavorato in un ufficio, sa bene che ci sono quelli che si esprimono liberamente (pochini, di solito) e quelli che invece si preoccupano solo di non contraddire i loro capi. E’ un problema di “woke mentality”? Neanche per sogno. E’ un problema di opportunismo e di essere disposti a tutto pur di fare carriera. D’altronde, quando molti sapevano di Weinstein e nessuno parlava, non era certo per “politically correctness”, ma solo per paura di ritorsioni.

C’è poi un problema di fondo (che anche David Poland – sempre molto attento – ha notato), ossia l’idealizzare un passato di Hollywood che la vorrebbe impegnata sul fronte dei diritti civili e fonte di grandi cambiamenti sociali. Sicuramente lo è stata, ma è anche stata un’industria nota per razzismo, antisindacalismo e (soprattutto) molestie sessuali.

E’ buffo, perché in questo articolo contraddittorio (spesso inconsapevolmente), lo ammette anche lo scrittore Sam Wasson parlando del maccartismo. “Hollywood non è mai stata anticomunista, ha solo fatto finta di esserlo. In effetti, Hollywood non è mai stata pro o a favore di qualsiasi cosa. E’ show business. Non c’è un senso morale”.

Il mondo della produzione (in America e nel mondo) non è mai stato così ricco di film e serie da realizzare come oggi (in Italia per le troupe in questo periodo si parla di “piena occupazione” ed è diventato difficile trovare i professionisti che si desiderano), ma gli autori del pezzo invece ritengono che “la grande maggioranza dei creativi devono sopravvivere con meno risorse” (qui veramente siamo al vittimismo senza prove) e si cita chi dice “conosco tante persone di talento che non trovano lavoro perché non sono di colore, donne o della comunità LGBTQ”.

Può essere in alcuni casi specifici, ma d’altronde c’è un’ovvia verità: se una certa tipologia di persone (in particolare i maschi bianchi caucasici) per decenni è stata abituata a rappresentare almeno il 90% di certi lavori (come le squadre di sceneggiatura), passare magari al 60-70% sembra una punizione. Ma non lo è, sicuramente nulla in confronto a tutte le donne e a persone di etnia non caucasica che per decenni non hanno potuto svolgere un lavoro che magari avrebbero meritato di avere.

Ci sono tanti veterani che non lavorano più per il loro sesso ed etnia (aggiungo, per età)? Forse qualcuno sì. Ma magari per lo più non lavorano perché non sono considerati commerciali. D’altronde, se Billy Wilder non ha potuto fare i film che avrebbe voluto dagli anni ottanta in poi, è comprensibile (anche se non per questo il discorso va sottovalutato) che qualcuno molto meno bravo e importante di Wilder non venga più chiamato. E sinceramente, conoscendo un po’ questo mondo, mi chiedo quanti agenti che comunicano ai loro clienti che non possono essere assunti perché bianchi/maschi, la stiano utilizzando come una scusa perché non sono riusciti a imporre i loro creativi.

Curiosamente, l’articolo cita alcuni famosi film e serie che sarebbero stati messi all’indice. E poi parla di “South Park” (non esattamente l’emblema del politicamente corretto e che – nonostante questo – sta arrivando con la sua 25esima stagione), dicendo che è stato ‘esentato’. Esentato da chi? Perchè? Forse perché ha successo e fa i soldi (allo stesso modo in cui Dave Chappelle può dire quello che vuole sui trans e Netflix lo riempie di soldi)?

Questa realtà la spiega bene anche un agente nello stesso articolo (sempre a proposito di dire cose in contraddizione e non accorgersene neanche):

“Kevin Parker, un agente nero alla Artists First, sostiene che gli scettici non hanno capito la situazione. ‘Tutto il discorso della diversità, in realtà è solo una questione di soldi. Fa bene agli affari raccontare storie da punti di vista diversi, tutto qui”.

E infatti, come ha dimostrato Hollywood recentemente, fa bene ai conti fare film come Black Panther o Captain Marvel, in cui i protagonisti di grandi successi Marvel non sono uomini bianchi. Magari la questione non l’ha capita bene l’industria cinematografica italiana (che agli ‘uomini protagonisti’ aggiunge anche il fondamentale ‘over 40’ e poi si indigna dei ragazzini che non vanno a vedere film che non li rappresentano, chissà perché…), ma a Hollywood i conti li sanno fare.

E in effetti il discorso delle quote nelle squadre di sceneggiatura è facilmente comprensibile. Se infatti si vuole raccontare “storie da punti di vista diversi”, questi punti di vista diversi devono essere presenti nelle writing room, che non possono certo essere composte solo da maschi bianchi.

E veniamo a un aspetto che ha generato molto rumore (per quasi nulla), ossia le nuove regole inclusive per partecipare alla corsa per il miglior film all’Oscar (attenzione: si parla solo di questa categoria, non di tutti gli Oscar!). All’epoca ho fatto una descrizione estrema su Facebook, ma ancora valida, la ripropongo qui sotto:

Fate finta di essere un produttore americano misogino, razzista e omofobo. Decidete di fare un buddy movie e di avere tutti uomini caucasici ed etero sia nel cast che nella troupe, compresa la postproduzione, quindi diverse centinaia di lavori che vanno solo a uomini caucasici. Decidete di mettere solo un’attrice asiatica come amica del protagonista e la descrivete con tutti i pregiudizi e gli stereotipi possibili. Poi fate un accordo con una casa di distribuzione che, a differenza vostra, è molto inclusiva nelle persone che assume (ma tanto non è un vostro problema, l’importante è che, in quello che fate voi, non vi troviate a dover lavorare con donne, gay e ispanici). Ecco, lo sapete che questa pellicola (non esattamente inclusiva) è ancora eleggibile all’Oscar per il miglior film? Questo dimostra che:

– Dire che le nuove regole dell’Academy sono ‘stringenti’ è ridicolo
– I giornalisti italiani non hanno letto le nuove regole dell’Academy, ma solo il titolo del comunicato stampa

P.S.
Se proprio, produttore americano razzista e misogino, non riesci a sopportare una donna sullo schermo, puoi eliminarla, va bene anche se prendi delle responsabili donne per i reparti trucco e parrucchieri, sei eleggibile comunque…

Questo dovrebbe far capire quanto siano ridicoli certi gridi di allarme e certi confronti con i film del passato che “non si sarebbero mai potuti produrre” (ma per carità). In effetti, basta leggere questo articolo di Usa Today (non esattamente un quotidiano ultraliberal), in cui si dice che tutti i film candidati quell’anno erano eleggibili anche con i nuovi criteri (che comunque saranno attivi solo dal 2024) e che citava Franklin Leonard, creatore della celebre Black List, che, sui criteri in questione, sostiene che “bisogna quasi sforzarsi per non rispettarli”.

E veniamo a un fronte che ci riguarda di più. Il cinema e (ancora di più) la società italiana. Qui c’è un paradosso: escono centinaia di articoli che denunciano la ‘tirannia’ del politicamente corretto, mentre è praticamente impossibile leggerne uno a favore di questo presunto ‘politicamente corretto’ (a parte forse Michela Murgia, che in realtà ha dimostrato ogni tanto di non avere le idee chiarissime sui termini politicamente corretti). Talmente ‘tirannica’ che permette loro di scrivere un giorno sì e l’altro pure di queste vicende e lamentarsene liberamente su decine di testate prestigiose, magari solo perché le opinioni più estreme su cui si concentrano arrivano da un singolo giornalista o addirittura semplicemente qualche anonimo commentatore su Internet (e il suo seguito di 12 persone).

Io non amo diversi aspetti della cancel/woke culture, ma a questo punto mi piacerebbe vedere qualcuno che la sostenesse in Italia (e in maniera seria, non per polemiche su come chiamare le professioni femminili), anche solo per creare un po’ di dibattito e non di articoli tutti uguali (in cui, alla fine, si cita sempre Caravaggio e la necessità di separare l’artista dalla sua vita privata, cosa che poi questi giornalisti spesso non fanno).

Ci si lamenta dei Golden Globes in Italia? Sì, ma non certo perché chiaramente hanno dimenticato negli anni di consacrare storie fondamentali, solo perché scritte da persone con il ‘colore sbagliato’ (o meglio, con poco budget promozionale). Nel 2021 acclamate serie come “I May Destroy you” e “Insecure” sono state ignorate, “Emily in Paris” ha ricevuto due candidature – tra cui miglior sere comica – ma da noi non ha sconvolto nessuno il fatto che più di trenta giurati dei Golden Globes siano stati invitati a Parigi dalla produzione di quest’ultimo e ‘casualmente’ Emily in Paris sia stato candidato. No, i Globes vengono difesi dai nostri media perché l’unico criterio dovrebbe essere la meritocrazia (la meritocrazia? I Globes???). Come se non avere neanche un giornalista di colore tra le loro fila non fosse una cosa allucinante (anche solo statisticamente parlando).

E gli Oscar? Per i nostri commentatori, se vincono donne/afroamericani/asiatici non è perché se lo meritano, ma solo per politically correctness. Al di là del fatto che significa ignorare talenti enormi, diciamo anche che qualche scelta sarà legata al PC. Beh, dov’erano questi commentatori quando magari dei modesti film (ma ‘progressisti’) vincevano la statuetta principale? Lì andava bene, giusto? Sì, perché l’impressione è che non sia tanto il giudicare l’arte con criteri politici a dare fastidio a certi giornalisti, quanto il fatto che ormai il pallino sia passato ad altri, che magari lo fanno anche in maniera più convincente. D’altronde, da quanti decenni dobbiamo ascoltare i nostri critici/giornalisti parlare di “film urgenti e necessari”? In quei casi, quando a raccontare certe storie ‘importanti’ sono italiani bianchi (di solito maschi), va bene? Perché, in effetti, è un po’ buffo che per decenni ci hanno detto che la cultura e i film hanno un impatto sociale importante, ma poi si sostenga che il suo impatto sociale (anche nell’identità di chi questi film li fa) non possa mai essere negativo (sostanzialmente, si dice che i film possono solo essere fonte di progresso sociale, mai di regresso: spiegatemi voi come sarebbe possibile).

Infine, ne volete sapere un’altra interessante, che fa capire come ormai i canoni giornalistici (anche e soprattutto su testate prestigiose) non siano altissimi? Sapete che c’è chi l’articolo americano di Kiefer e Savodnik da cui siamo partiti lo ha utilizzato a piene mani per scrivere il suo pezzo (senza nessuna domanda e prendendolo come Vangelo) e incredibilmente non lo ha citato, come se l’analisi e le relative ricerche le avesse fatte il giornalista italiano (che ha semplicemente sintetizzato l’articolo originale)? Insomma, sarebbe questa la tirannia?

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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