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Le ricerche “notiziabili” e l’irrilevanza dei risultati. “Ok, Boom!”

Nell’Italia del “37,5% di febbre” c’è ancora chi si ostina a cercare i presupposti della notiziabilità in una percentuale. Occupandomi di ricerche di mercato la cosa dovrebbe farmi piacere. Ma ci sono dei costi, sui quali è bene ragionare.

Nel mondo del “37,5% di febbre” c’è ancora chi si ostina a cercare i presupposti della notiziabilità (per un tema che ha a cuore o per uno specifico obiettivo di comunicazione) in una percentuale. Occupandomi di ricerche di mercato la cosa dovrebbe farmi piacere e, occasionalmente, potrebbe anche darmi opportunità di lavoro. Ma ci sono dei costi, sui quali è bene ragionare.

Poniamo che l’obiettivo (legittimo e condivisibile) sia quello di rappresentare la “passione del pubblico per la sala cinematografica” e la voglia di tornarci prima possibile. Si aprono più strade: reperisco un dato già disponibile (utilizzabile ed attendibile) e decido di veicolarlo, oppure “fabbrico” un dato a mio uso e consumo realizzando un sondaggino senza alcun criterio metodologico e, se ritengo che i risultati mi facciano gioco, li divulgo (vestendo le mie percentuali da ricerca “vera”), oppure commissiono un sondaggetto “quick and dirty” a chi si occupa professionalmente di ricerche di mercato e sondaggi d’opinione o, come ulteriore opzione, mi rivolgo a delle professionalità “contigue” (fra marketing, comunicazione, PR) e faccio fare a loro il “lavoro sporco” (o potenzialmente tale).

Il lavoro in questione “rischia di diventare sporco” quando l’obiettivo è quello della divulgazione di un dato specifico… ed i risultati non sono pienamente in linea rispetto alle attese, o comunque si prestano a dei distinguo interpretativi che lo rendono meno spendibile in sede di comunicazione.

Quando capita questo, ed il sondaggio è a cura di una società specializzata, scattano problemi deontologici non secondari. Certo, si può lavorare di selettività ed omissione (entro certi limiti), ma qualcuno che ti dice “no, questa cosa, con questi dati, non si può sostenere” rischi sempre di trovarlo.

Le “professionalità contigue” potrebbero rivelarsi (colposamente o dolosamente) meno problematiche, sia perché i ludi numerici in questione non riguardano il loro core business e non alimentano la sensazione di “compromettersi”, sia perché una genesi di questo tipo spesso si porta dietro budget risicati e chi realizza e chi commissiona scelgono di comune accordo di non andare troppo per il sottile.

Ne derivano cose come “il 37% degli spettatori ha messo il cinema al primo posto tra le attività da riprendere dopo lo stop causato dalla diffusione del Covid-19” (letto in questi giorni), che davvero mi chiedo cosa debba significare. Ammettiamo che la ricerca in questione riesca effettivamente a rappresentare gli spettatori cinematografici, nello specifico quelli italiani. Questa nello specifico non quantifica il bacino dei moviegoer, ma altre fonti (Istat compreso), individuano da tempo l’intorno dei 25 milioni di individui (solo nella componente over14). Nel 2019 sono pure aumentati, dunque il 37% in questione (oh, poco meno del 37,5% di febbre citato sopra!) dovrebbe essere associabile a 9-10 milioni di individui.

Questa sì che sarebbe una notiziona! Per quasi 10 milioni di italiani, la prima (PRIMA!) attività da riprendere “dopo lo stop causato dalla diffusione del Covid-19” era (doveva essere? sarà?) mettere piede in una sala cinematografica. Prima di un’uscita al ristorante, prima di una pizza o di un aperitivo con gli amici (e non cito le discoteche); insomma il cinema (in sala o all’aperto) come prima primissima cosa. In molte zone d’Italia, le condizioni per poter tener fede a questo proposito, si sono create a partire dal 15 di giugno. Sappiamo tutti che le sale che si sono avvalse della possibilità di riapertura sono state pochissime, e che solo nei giorni scorsi (18 agosto) ci si è avvicinati al 50% degli schermi attivi (in coincidenza con le prime nuove uscite).

Bene. Sia riproporzionando il popolo del “cinema first” in base al tasso di riapertura fino a metà agosto (quando si scontava l’assenza di novità), sia in relazione agli ultimi giorni, appare evidente che quello del 37% di spettatori (per un equivalente di 9-10 milioni) che avrebbe collocato il cinema “al primo posto tra le attività da riprendere dopo lo stop causato dalla diffusione del Covid-19” è eccessivamente, inutilmente e infondatamente alto. Anche nella (non brillantissima) normalità estiva, fra luglio ed agosto si stacca(va)no circa 8 milioni di biglietti (con un numero di spettatori che è verosimilmente inferiore considerando che qualcuno va al cinema più di una volta anche in questo periodo). Quindi no, 9-10 milioni di spettatori che collocano il cinema al primo posto fra le cose da fare nella riguadagnata libertà estiva non sono credibili (tanto più che ci si dovrebbe aspettare un certo tasso di conversione anche presso coloro che, nel sondaggio in questione, avrebbero messo l’andare al cinema al secondo o terzo posto).

C’è chi usa ancora l’espressione “eh sì, boom!” quando sente qualcuno che “la spara troppo grossa”. Nel mio cervellino semplice scatta l’assonanza con il più recente (e diversamente radicato) “ok boomer”, quindi mi prendo la libertà di fondere il tutto in un “ok, boom!” da associare ai risultati di sondaggi (o presunti tali) che “la sparano troppo grossa”. A fin di bene? Certamente sì. L’auspicio è chiaramente quello della profezia che si autodetermina. Parlo di molte persone che hanno voglia di tornare al cinema sperando che i titubanti si rassicurino. Funziona? Ha senso farlo?

Mi verrebbe voglia di rispondere che sì, spero anche io che la strategia si riveli efficace, se non fosse che il presupposto dell’efficacia dovrebbe inevitabilmente risiedere nell’incapacità del lettore/spettatore medio di leggere ed interpretare un dato (ma qui siamo sulla buona strada).

Insomma, di fronte a quel 37% di “cinema first”, gli spettatori dovrebbero pensare “cavolo, pure io!” e non il disincantato “ok, boom!” di cui sopra, che lasciamo ai cinici e disincantati rosiconi come il sottoscritto.

Insomma, ricerche di mercato e sondaggi di opinione vanno realizzati per capire i fenomeni (prendere delle decisioni e, eventualmente, divulgare dei risultati), oppure ha senso farle per indurre il concretizzarsi dei fenomeni auspicati, parlarne, ed attendere che la realtà si avvicini alla sua rappresentazione (alterata)?

I risultati di ricerche relative alle dinamiche di settore sono un ingrediente che ricorre abbastanza spesso anche in articoli di testate specializzate statunitensi come Variety. E’ accaduto anche nei giorni scorsi con la pubblicazione di un pezzo dal titolo “Audiences Still Prefer to See ‘Tenet,’ ‘Wonder Woman 1984’ in Movie Theaters, but Most Would Be Fine Watching at Home (EXCLUSIVE)”.

Sullo sfondo l’accordo fra AMC Theaters ed Universal Pictures in merito alla contrazione della tradizionale finestra theatrical da 90 a 17 giorni, prima di proporre i titoli principali in modalità premium VOD (con condivisione di una quota dei ricavi con la catena). Comprensibilmente ci si interroga sull’impatto che questo avrà sulla propensione a vedere i film in sala, ma gli indicatori scelti non sembrano chiarissimi. Parliamo di una ricerca affidata a società specializzate, che sono state messe nelle condizioni di monitorare gli orientamenti degli americani con un campione da 1000 interviste. Pochine, quantomeno per le ampie “forchette” da associare alle stime (data l’esigenza di rappresentare un universo di circa 270 milioni di over14).

La domanda-chiave riguarda la propensione a vedere un “Must-See Movie” a casa per 20 dollari, associandolo di volta a durate differenziate della finestra che separa dall’home release, e dando la possibilità di far riferimento ad una visione (certa o probabile) in sala fra gli item di risposta.

Troppe variabili in uno stesso quesito, peraltro rilanciato più volte differenziando la durata della finestra.

In realtà il quesito-chiave riguarda la propensione a guardare un “Must-See Movie” a casa per 20 dollari, ed il grande assente è l’item di risposta “non guarderei un film a casa per 20 dollari” (nemmeno se lo qualifichi come Must-See Movie). Quello del Must-See Movie è peraltro un elemento distorsivo non da poco (quanti titoli meriterebbero questa qualifica per lo spettatore medio? Con quali presupposti rispetto alla domanda ed alla willingness to pay?). Inoltre, lo scenario dei 90 giorni (il primo sondato) è quello abituale, rispetto al quale la novità risiede nel fatto che, dopo 90 giorni, il Must-See Movie in questione sarebbe disponibile per la visione a casa (e la domanda recita “a 20 dollari”). Come dovremmo interpretare quel 23% relativo a chi dice che aspetterebbe 90 giorni per poi vedere a casa il film a 20 dollari (quando qualunque titolo, Must-See Movie o meno, dopo 90 giorni viene reso disponibile a cifre ben più basse)?

Per la cronaca: il 23% di 270 milioni equivale a più di 62 milioni di americani (“ok, boom!”).

Ma forse l’intento era ragionare sulle percentuali del “definitely/probably watch first at a movie theater” (che fa un po’ specie perché è la risposta, quasi “di risulta” ad una domanda che riguarda la propensione al noleggio in modalità premium VOD). Si parte dal 12% di “definitely” associata allo scenario dei 90 giorni. L’espansione di tale dato equivale a circa 32 milioni di americani. In realtà i Must-See Movie statunitensi fanno registrare un numero di ingressi molto più elevato, dunque dobbiamo immaginare un buon tasso di conversione elevato anche per i “probably”.

Cosa ci rivela poi la ricerca? Che al progressivo restringersi (temporale) della finestra (fino al “no wait”), calano i riferimenti alla propensione alla visione in sala, con il “definitely” che scende dal 12% al 6% nell’opzione dei 17 giorni. L’interpretazione prova ad essere consolatoria (per gli esercenti) quando si evidenzia che non ci sono flessioni sensibili nell’ulteriore passaggio al “no wait”, arrivando a scrivere:

“Still, the survey revealed some curious bright spot for exhibitors: There appears to be a negligible difference for theatergoing between a 17-day theatrical window and no window at all, with 15% of respondents saying they would probably or definitely choose to see a movie in theaters even if they could watch it immediately at home. That suggests a solid floor of core support for the theatrical experience regardless of home viewing options that exhibitors can build on in the coming months and years as COVID-19 dangers begin to subside”.

Il fatto è che se fosse vero il dimezzamento dei “definitely” (per la visione in sala) nel passaggio da 90 a 17 giorni, non ci sarebbe nulla da gioire nella successiva “tenuta” dal 17 a “no wait”. Lo “zoccoletto molliccio” (altro che duro!) sarebbe infatti di 15-16 milioni di spettatori, più o meno da raddoppiare unendo anche i “probably”, ma che nel complesso sono sostanzialmente dimezzati rispetto allo scenario attuale (e la domanda parlava di Must See Movie!).

Insomma, provano a consolare gli esercenti con un dato che, fosse fondato, li dovrebbe terrorizzare.

In realtà possiamo confidare sull’inattendibilità dell’indicatore, e non tanto (solo?) per aspetti tecnico-metodologici, ma per considerazioni di carattere logico-cognitivo.

C’è infatti da augurarsi che NON abbiano reiterato la stessa domanda allo stesso intervistato, diminuendo progressivamente la durata della finestra. E’ chiaro infatti che, per essere coerente con se stesso, l’intervistato sarà meno propenso a dare risposte legate alla visione in sala man mano di che gli prospetti l’alternativa domestica (allo stesso prezzo dell’opzione iniziale) in tempi via via più ristretti.

Rimane peraltro indecifrabile il 39% di “definitely wait and watch at home” associato a al “no wait” (disponibilità del titolo in contemporanea su piattaforma ed in sala), considerando che il quesito continua a far riferimento ad una visione domestica in modalità premium VOD a 20 dollari (e non contemplando la risposta “no, non noleggerei un film a 20 dollari in ogni caso”).

Il bacino equivalente a quel 39% supera la soglia dei 100 milioni di americani (senza il contributo dei “probably”. “Ok, boom!”.

Serve davvero commissionare, comunicare, commentare ricerche di questo tipo?

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