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Matinée della domenica di Cineguru #9

L’importanza degli Oscar per Netflix. Tutti gli occhi sono puntati su Roma di Alfonso Cuarón e le sue dieci nominations, riuscirà a portarsi i premi più ambiti?

Buongiorno e buona domenica degli Oscar. Come anticipato mi sono preso una breve vacanza, saltando quindi due appuntamenti domenicali e torno ora puntuale per questo matinée, nono appuntamento con la selezione delle notizie dal mondo dello showbiz più interessanti uscite negli ultimi giorni che, in questo caso, sono ben due settimane. Questa sera, appunto, non è certo una notte qualunque, “festeggiamo” la cerimonia degli Oscar e in particolare noi di ScreenWeek lo faremo come ormai da tradizione non solo con una accurata copertura sul blog ma anche con un’apposita live su YouTube, se volete seguirla con noi potete attivare l’apposito promemoria sul nostro canale YouTube.

Quanti Oscar vincerà Netflix? Saranno meritati?

Inutile negare che quest’anno c’è un motivo in più per guardare con attenzione ai risultati che ci verranno snocciolati durante la cerimonia di premiazione. Lunedì staremo tutti a misurare, anche la borsa, il numero di nomination che i film Netflix – titoli che non solo non sono usciti o sono usciti poco più che simbolicamente nei cinema e che le principali catene cinematografiche escludono anche dalle tradizionali rassegne dei film in lizza per i premi della Academy – riusciranno a convertire in statuette. In particolare è chiaro che tutti gli occhi sono puntati su Roma di Alfonso Cuarón e le sue dieci nominations (qui la nostra infografica con tutti i numeri degli Oscar 2019) pari a quelle de La Favorita. Impossibile pensare che il titolo non riuscirà ad aggiudicarsi qualche statuetta ma riuscirà anche a portarsi a casa anche alcuni tra i premi più ambiti? Netflix ha progettato con grande attenzione la corsa agli Oscar di questo suo “originale Netflix“, fin dalla cura e dal team che ha accompagnato il film al Festival di Venezia, e lo sta facendo fino in fondo.
Giusto qualche giorno fa Gabriele Niola raccontava su Esquire come per la corsa agli Oscar (giustamente paragonata a una campagna presidenziale) Netflix abbia assoldato in esclusiva (e anche per il futuro) la più grande di tutte le strateghe, Lisa Taback, che in 26 anni ha portato alla vittoria tantissimi plurivincitori (non sempre apprezzati da tutti) cominciando all’ombra di Harvey Weinstein. Anche il budget investito nella campagna è di tutto rispetto, tre dozzine di affissioni per tutta Hollywood secondo la Reuters e un investimento complessivo di 25 milioni di dollari secondo quanto riportato da The Wrap. In fondo, come sintetizza Gabriele “In palio non c’è solo un riconoscimento che porta un ottimo ritorno in termini di vendite, biglietti e home video per il film, ma la legittimazione stessa della società nel mondo del cinema e l’affermazione perentoria che i film veri, giganti e storici non dimorano solo in sala, ma anche in televisione.“.

Ne varrà la pena? Io qualche azione Netflix in più in vista di lunedì la ho presa perché il mercato ha dimostrato di reagire troppo bene alla storia che Netflix gli sta raccontando e sono convinto che niente sia stato lasciato al caso, ma è chiaro che tutto questo è strumentale ad un tipo di percorso. Noi, addetti ai lavori e appassionati del cinema continuiamo a guardare le cose in una prospettiva cinema centrica, quando dovremmo invece spostare il nostro punto di vista e ricordarci che il settore che Netflix e più in generale gli streamer stanno attaccando è quello delle televisioni, a cominciare dalle pay tv ma arriveranno fino alle generaliste. In questa ottica un film da Oscar serve a Netflix quanto a Rai 1 servivano i film del lunedì sera e quanto, in tempi più recenti, può essere servito a Mediaset proporre in anteprima un Cinquanta Sfumature bruciando le altre finestre. Il cinema continua a simboleggiare il meglio che l’industria audiovisiva può realizzare e ad essere quindi la migliore calamita per attrarre pubblico, salvo poi riempire i palinsesti (o le library) di prodotti medi quando non mediocri, ma sicuramente ben segmentati. Facevo queste riflessioni leggendo a distanza di alcuni giorni le discussioni scaturite su Facebook a seguito di un post di Nanni Cobretti che inserisco qui di seguito e di altre discussioni in cui si parlava del pubblico della tv generalista. No, non quelle su Adrian, la dimostrazione che c’è una soglia sotto la quale la mediocrità è riconoscibile da tutti. Per riflettere sulla qualità delle produzioni Netflix abbiamo pensato di anticipare la nottata che comunque vada sancisce il definitivo ingresso di Netflix tra i grandi di Hollywood con un articolo suoi suoi cinque migliori e peggiori film.

Alan Horn, Disney, Fox e Disney+

Certo non sarà una novità essere in platea ad attendere la fatidica frase “and the Oscar goes to…” per Alan Horn, il veterano a capo di tutta la produzione Disney, che però in questa 91esima edizione degli Oscar si toglie anche la soddisfazione di essere lì, tra le altre cose, per la prima volta in cui un cinecomic si trova candidato come miglior film. Non so quali siano le concrete possibilità di Black Panther di aggiudicarsi l’ambita statuetta, già la nomination è stata ampiamente criticata, ma tutti abbiamo visto quale è stato l’impatto di questo titolo, capace negli USA di battere il risultato dei “Vendicatori uniti” in questo particolare momento della storia americana. Alan Horn ha parlato di questo ed altro in una interessante intervista rilasciata all’Hollywood Reporter in cui ha liquidato rapidamente una domanda sul post John Lasseter per concentrarsi sul tema dell’integrazione di Disney con Fox e rinforzare quanto già aveva raccontato Bob Iger nell’intervista analizzata nel matinée #5.

“With Fox, we can make movies that right now I say no to. […] The audience for a Disney movie may not know what they are going to see, but they know what they aren’t going to see.”
(Alan Horn)

Chiaramente uno dei punti toccati riguarda la possibilità che ha ora, coordinando molteplici brand, di sviluppare progetti che prima sarebbero stati impossibili sotto il brand Disney. Maggiore liberà offrirà anche “the service”, Disney+, in quanto la piattaforma di streaming permetterà di dire di sì a progetti che non avrebbero trovato spazio al cinema, soprattutto con la strategia di Disney e di Horne, il cui motto produttivo è “Do I have to see it now, and do I have to see it on the big screen?“.

“I say to Sean Bailey, “I have good news. You can now make a McFarland, U.S.A. again.” That was an example of a wonderful movie that lost money. But this is the perfect vehicle for that kind of movie. Kathy Kennedy and Lucasfilm came up with the idea — it wasn’t mine — of an episodic Star Wars series called The Mandalorian, done by Jon Favreau. And the people at Disney Animation and Pixar are saying, “What can we do?” Everyone wears an additional hat now. Bob has said the service is now his No. 1 priority.”
(Alan Horn)

Una forza produttiva senza pari dunque, con marchi che spaziano dalla Lucasfilm alla Searchlight, e soprattutto la possibilità di progettare prodotti per ogni tipo di sfruttamento: dalle produzioni evento che hanno dimostrato di continuare a riempire le sale (l’articolo di THR ci ricorda che dei 18 titoli della Disney che hanno incassato più di un miliardo di dollari 12 sono stati prodotti da quando Horne è a capo degli Studios, dal 2012), al cinema di qualità ma di grande richiamo e fino a prodotti che sono perfetti per le nicchie che si possono raggiungere attraverso le piattaforme di streaming ottimizzando al massimo l’efficienza distributiva. Rispetto a tutta questa libertà, che riverserà mai come prima ore e ore di produzione audiovisiva sul pubblico, Horne comunque conclude con una riflessione importante.

“Netflix and companies like Amazon represent the great disruption in our business and a seismic shift in consumer offerings and viewing patterns. The interesting thing, which is not resolved yet, is how big is the consumer appetite for these incremental services? I like our chances.”
(Alan Horn)

Chiaramente tutto questo potenziale ha anche un rovescio della medaglia ed è quello di cui si sono occupati la gran parte degli articoli usciti in queste settimane. In particolare a inizio febbraio sempre l’Hollywood Reporter ha pubblicato un lungo articolo di indiscrezioni e rumors sulle ipotesi di interventi successivi al completamento dell’acquisizione delle Fox.

Oltre al tema della fusione con Fox c’è anche il tema di tutti gli interventi che Disney sta facendo per preparare il lancio, il prossimo inverno, di Disney+ il che comporta il rientrare in possesso di gran parte dei diritti che ora la società di Bob Iger licenzia a terzi (Netflix era tra questi) in giro per il mondo. Tra questi articoli segnalo questo di The Wrap sul miliardo che Disney starebbe già perdendo a causa dello streaming (e di Hulu), seguito da un’altra analisi sempre della stessa testata sui 150 milioni di dollari in licenze, anche se il più completo è forse questo di The Information che si focalizza soprattutto sul business televisivo e su cosa significa rientrare in possesso delle licenze a livello globale, compresa l’ipotesi che questo porti anche alla chiusura dei canali in alcuni paesi. Tra gli altri segnalo anche questa intervista di Variety a John Landgraf di FX. In tutto questo c’è ancora chi si stupisce e ha bisogno che venga spiegato come mai Netflix abbia cancellato le ultime serie Marvel e che forse alcune di queste possano trovare nuova vita dentro a Hulu.

In realtà in queste analisi non si scopre molto di più di quanto raccontato da Iger nell’intervista citata più sopra, e tra un rumor e una stima c’è anche chi azzarda che Disney+ possa essere un flop e con l’occasione ci ricorda una parodia di un commercial di SNL sulla singolarità della produzione di Tv Show.

Nel frattempo Universal, Warner e gli altri?

Se Horn ha fiducia nelle chance di Disney di giocare questa partita per l’attenzione degli spettatori non è che gli altri stiano a guardare. Negli ultimi matinée prima della pausa abbiamo visto che Comacast-Sky-Universal ha cominciato a dispiegare il suo arsenale e proprio negli ultimi giorni un ottimo articolo dell’Observer metteva a confronto le performance dei titoli Universal con quelli delle altre Major e soprattuto di Disney, evidenziando una serie di punti di forza tutt’altro che trascurabili. Anche se è dal 2015 (anno in cui tra le altre cose Disney fece uscire Il Risveglio della Forza e Age of Ultron) che la major non chiude l’anno in testa al box office americano, negli ultimi 4 anni è sempre stata tra le prime tre. Tra i segreti della formula Universal l’articolo elenca innanzitutto la sua capacità di sviluppare le proprie franchise (Fast & Furious e Jurassic World) anche nel mercato cinese, i cui risultati di box office pesano ormai tanto quanto quelli del mercato domestico e possono fare la differenza su scala globale.

The Fast and the Furious and Jurassic World may not be the most thought-provoking blockbusters, but they sell tickets like no other.

Il mondo dell’animazione sarà anche dominato dalla Disney-Pixar, ma l’articolo fa notare quanto non ci sia un titolo Illumination che sia costato più di 80 milioni di dollari (contro i 200 stimati di un titolo Pixar) ma 6 tra i 9 titoli prodotti dalla casa di Chris Meledandri siano tra i primi 50 incassi d’animazione di tutti i tempi e titoli come Cattivissimo Me 2 e 3 e Minions siano nell’intorno del miliardo di dollari di box office globale. Oltre a Franchise e Animazione non bisogna dimenticare la capacità di lavorare su titoli rivolti al pubblico femminile con la serie di 50 sfumature (in questo febbraio ne sentiamo molto la mancanza anche in Italia) e più in generale la capacità di lavorare su progetti a basso rischio ma alto margine, caratteristica questa rappresentata al meglio dai titoli della Blumhouse.

These days, making movies people enjoy and making money seems like a task of Sisyphean proportions. Any studio that manages to do so—including Disney—deserves our respect. But if Universal isn’t  No. 1 in standing, it deserves credit for making its own hits (as opposed to outsourcing them) with homegrown franchises, a diverse slate year after year, wise spending and intelligent partnerships.

La Major di cui per ora si parla di meno è la Warner Bros., anche se nel frattempo il suo team prende sempre più forma Sarah Aubrey da TNT è stata nominata a capo delle produzioni originali per il suo servizio di streaming e comunque la società continua a licenziare tatticamente i suoi contenuti ai principali OTT (facendosi anche pagare bene come vedevamo qualche settimana fa), ma soprattutto ragionando proprio con Universal su accordi di licenza incrociata dei proprio contenuti.

Chiudo questa non proprio rapida (ma appunto le cose accumulate erano tante) occhiata al resto delle case impegnate nella lotta per il trono dello streaming (anche se uscirà a primavera inoltrata l’inverno sta arrivando anche per me e la febbre da Game of Thrones sale) segnalando questa intervista a Jennifer Salke di Amazon che se da una parte conferma l’intenzione di proseguire a distribuire film al cinema in modo tradizionale, da un’altra acquista consapevolezza sulla necessità, anche per loro, di distinguere tra prodotto che “merita” l’uscita cinema e prodotto che può andare direttamente, o con finestre più corte, direttamente in piattaforma. In sintesi dei 30 film che Amazon ha in programma di rilasciare quest’anno 20 andranno direttamente sul servizio, e anche se la Salke garantisce che tutti i titoli acquisiti al Sundance andranno prima al cinema dice chiaramente che la vecchia window di 90 giorni che hanno garantito fino ad ora diventerà una variabile.

“Direct to service is really important for us. We want a really strong pathway toward that.”

Intanto i giovani in Italia non vanno al cinema

Nel frattempo qui da noi ci siamo tutti arrabbiati perché Aldo Cazzullo in un pezzo in cui parlava di diritto d’autore e di salvare film e giornali: “I ragazzi, tranne rare eccezioni, non vanno al cinema o a teatro, perché le due ore di un film o di una rappresentazione sono per loro un tempo infinito; in quelle stesse due ore hanno visto cento filmati di YouTube o mandato duecento messaggi su WhatsApp.” Sicuramente, mi viene da rispondere, i ragazzi fanno altro, arrivano anche a riunirsi in più di 10 milioni per assistere a un concerto su Fortnite, ma trovo innegabile e facilmente dimostrabile che vadano anche al cinema, più di altre fasce della popolazione, mentre se vogliamo discutere di come salvare i giornali consiglio di cominciare la lettura da questo articolo del Post.

Davide Dellacasa
Publisher di ScreenWeek.it, Episode39 e Managing Director del network di Blog della Brad&k Productions ama internet e il cinema e ne ha fatto il suo mestiere fin dal 1994.
http://dd.screenweek.it
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