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Megaupload e Megavideo chiusi dall’FBI (e riaperti a tempo record?)

Un’operazione congiunta di FBI, Dipartimento della Giustizia americana e corpi di Polizia di cinque stati in quattro diversi continenti ha portato nella notte all’arresto di Kim “Dotcom” Schmitz (Kim Tim Jim Vestor) insieme ad altre sei persone, e alla chiusura dei siti (18 domini) e delle società da lui fondate che possiamo riassumere con i termini Megaupload e…

Un’operazione congiunta di FBI, Dipartimento della Giustizia americana e corpi di Polizia di cinque stati in quattro diversi continenti ha portato nella notte all’arresto di Kim “Dotcom” Schmitz (Kim Tim Jim Vestor) insieme ad altre sei persone, e alla chiusura dei siti (18 domini) e delle società da lui fondate che possiamo riassumere con i termini Megaupload e Megavideo.

Una nota ufficiale del Dipartimento di Giustizia svela chiaramente il capo d’accusa:

Sette individui e due società sono state accusate di mascherare una presunta impresa criminale internazionale organizzata responsabile di massicci atti globali di pirateria on-line a danno di numerose opere protette da copyright, attraverso siti correlati al dominio Megaupload.com. Hanno generato più di $ 175 milioni di proventi illeciti causando più di mezzo miliardo di dollari di danni ai titolari dei copyright


Più che di “semplice” pirateria informatica, si parla di una vera e propria associazione criminale che ha generato profitti milionari. Siamo ben lontani dall’ingenuità della creazione di Napster ad opera di Sean Parker nel 1999, sito di file sharing musicale capostipite di centinaia di cloni nel corso di una decade.

A differenza di altri siti, concepiti per lo storage, il file sharing e lo streaming legale ma sfruttati anche illegalmente (come Dropbox o lo stesso Youtube), l’accusa si è espressa molto chiaramente contro Megaupload. Il fatto di “minacciare” i propri utenti della cancellazione dei propri upload dopo 21 giorni, a meno del pagamento della tariffa per diventare utenti Premium, è uno degli elementi che ha fatto la differenza:

L’accusa sostiene che il sito è stato strutturato in modo da scoraggiare la maggior parte dei suoi utenti dall’utilizzare Megaupload per la conservazione a lungo termine di materiale personale, eliminando automaticamente il contenuto che non è stato regolarmente scaricato. I cospiratori avrebbero inoltre offerto un programma a premi che offre agli utenti incentivi finanziari per caricare i contenuti più popolari sul web e portare traffico al sito, spesso generato attraverso siti web conosciuti come “siti di collegamento”. I cospiratori avrebbero pagato utenti i quali che avevano caricato contenuti in violazione dei diritti d’autore e che aveva  pubblicizzato i loro link per gli utenti di tutto il mondo.

Sono proprio gli introiti derivati dagli abbonamenti Premium a costituire il vero e proprio lucro a danno delle major musicali e cinematografiche che ha portato il signor Schmitz ad accumulare beni (ora confiscati) per oltre 175 milioni di dollari, nonché al suo arresto. Si parla anche di una collezione di auto che comprende Rolls-Royce Phantom, Maserati GranCabrio, Lamborghini, Cadillac d’epoca, 16 Mercedes, Harley Davidson, ville milionarie e una lunga serie di altri beni preziosi.

Eppure l’opinione pubblica si è mossa in fretta (forse troppo in fretta) in difesa del fondatore di Megaupload. A breve distanza dall’arresto il collettivo Anonymous, formato da hacker in tutto il mondo (si parla di più di 5mila persone), ha attaccato diversi siti di istituzioni e major di tutto il mondo mentre su Twitter si inneggia alla #primaguerradigitale.

C’è però differenza tra inneggiare alla morte del Copyright così come lo conosciamo (o meglio, spingere verso una sua evoluzione parallela a quella dei mezzi di distribuzione) e difendere un criminale, attualmente presunto, ma responsabile di un palese arricchimento ai danni di società che hanno investito complessivamente miliardi di dollari per produrre i materiali audio-video scambiati tra i propri utenti.

Che sia forse il momento di una seria riflessione per spingere ulteriormente verso la creazione massiccia di molteplici e vari strumenti di distribuzione legale di materiale audiovisivo, modificando contemporaneamente e attualizzando le leggi sul diritto d’autore? Società e siti internet di streaming e download digitale legale, se qualitativamente di buona fattura e con una discreta offerta, portano ingenti profitti agli investitori così come alle major stesse e gli esempi ci sono (iTunes, Netflix e Hulu solo per citarne alcuni).

Senza una valida alternativa ad ampio raggio d’azione i consumatori continueranno a fruire del servizio più comodo e vicino alle loro esigenze. Non si sta parlando di scaricare il film uscito nel weekend al cinema e ripreso con una videocamera e poi messo su internet, ma di recuperare un vecchio classico senza dover andare a rovistare nelle videoteche (ne esistono ancora?) o di rivedere alcuni episodi di un’amata serie televisiva che non più viene trasmessa da alcun canale. Quanti offrono un servizio di questo tipo, soprattutto in Italia (non a caso uno degli stati al mondo in cui la pirateria digitale è più diffusa)?

Il rischio è sempre lo stesso. Chiuso un Megaupload, se ne aprono altri dieci o addirittura riapre lo stesso sotto un’altro nome (vedi l’immagine sottostante). Non a caso nell’ultimo anno il “monopolio” incontrastato di Megaupload e di Schmitz è già stato minato da diversi altri siti di file sharing e streaming video, che stanno acquisendo popolarità sempre maggiore sulla rete: Fileserve, Filesonic, Videoweed, FileJungle, Videodebb, Videozer

Se molti consumatori sono disposti a pagare tariffe non necessariamente esigue (si parla tra i 60 e i 100 euro per un anno) per usufruire di servizi di sfruttamento illegali (e i beni del signor Megaupload ne sono la dimostrazione!), non è fantascienza pensare che possano versare quote simili o anche più elevate per un servizio legale, che facilmente potrebbe dimostrare qualità ben più elevate.

Fonti: Justice.gov, Corriere

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