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Lo sciopero della WGA e dove sta andando il Mercato

Cosa sta succedendo nell’industria del cinema e dell’audiovisivo? Un discorso complesso e sfaccettato, anche pieno di sorprese e situazioni inattese, che però è centrale per il futuro di tutto il settore…

Analizzare lo sciopero della WGA in America è utilissimo, non solo per le giuste rivendicazioni degli sceneggiatori, ma anche perché ci può offrire un quadro di come è il Mercato e delle problematiche che sta affrontando ora e che vivrà in futuro.

Una cosa che mi ha colpito qualche mese fa sul possibile (in quel momento) sciopero, è stata una frase di David Poland (che, a scanso di equivoci, è assolutamente un sostenitore delle richieste della WGA), che aveva affermato che “non ci potrebbe essere un momento peggiore per farlo. Tuttavia, la necessità di farlo è assoluta”. Poland intendeva dire che lo stato di incertezza del mercato (soprattutto, delle piattaforme streaming) non rende facilissimo effettuare trattative in questo momento, perché anche la controparte – che francamente non ha ancora capito bene come far funzionare il modello streaming e di errori ne ha fatti parecchi – non ha ben chiaro quanto può mettere sul tavolo senza rischiare di pentirsene nei prossimi anni.

Poland peraltro ieri, in un ottimo articolo, ha fornito un altro punto di vista interessante a riguardo, che trovate qui sotto (si parte da una frase di un responsabile della WGA):

“Quando le persone non ti dicono quanti soldi stanno facendo, puoi essere sicuro che ne stanno facendo tantissimi o pochissimi. Stanno nascondendo i soldi. Ed è quello che fanno, nascondono i soldi. Dobbiamo trovarli”.

Questa citazione è di Chris Keyser, tra i responsabili del comitato che si occupa delle trattative della WGA, in un’intervista a Hollywood Reporter la scorsa settimana.

E mi spaventa molto… perché indica una profonda incomprensione dello stato in cui si trova l’industria in questo momento.

Sostengo la WGA. Sostengo lo sciopero (anche se penso che avrebbe dovuto essere posticipato di circa un mese). E mi piace il lavoro di Keyser come scrittore… sono un grande fan di Julia (Sarah Lancashire avrebbe dovuto vincere l’Emmy l’anno scorso e la seconda stagione è già pronta).

Tuttavia… lo stato attuale dell’industria non è quello di una “ricchezza nascosta” e una delle principali ragioni per cui l’attuale infrastruttura danneggia gli sceneggiatori che lavorano è che non esiste un modello di reddito coerente per le serie che vengono realizzate… anche se ne vengono realizzate più di quanto sia mai avvenuto nella storia dell’umanità.

Certo, si potrebbe giustamente notare (come hanno fatto presente tante testate trade in questi giorni) che in un panorama fatto non solo di richieste degli sceneggiatori (e sono in arrivo quelle dei registi e degli attori, i cui contratti scadono tra poco), ma anche di ingenti licenziamenti un po’ in tutte le aziende, certi compensi per gli amministratori delegati non suonano benissimo (eufemismo). Ma, visto che i CEO non sembrano particolarmente intenzionati a tagliarsi gli stipendi in maniera sensibile, conviene ragionare sull’esistente e le sue difficoltà.

Partiamo da una constatazione, che va spesso contro le idee che ci siamo fatti in Italia: le piattaforme hanno finora perso tanti soldi (con l’eccezione di Netflix, che ha iniziato a mostrare degli utili stabili l’anno scorso e che comunque per più di dieci anni ha portato avanti i suoi ingenti investimenti grazie a prestiti delle banche, che ora vengono ripagati). Se, insomma, si pensa di avere di fronte degli interlocutori che stanno guadagnando enormi cifre (e da quello ci si basa per la propria strategia), si rischiano brutte sorprese.

Ora, qui non si contesta il principio di essere pagati di più in base ai risultati. Anzi, in tempi non sospetti, sostenevo che le piattaforme avrebbero fatto bene a fornire incentivi sui risultati dei loro prodotti, altrimenti i produttori indipendenti non avrebbero avuto vantaggi nell’impegnarsi maggiormente. Lo stesso discorso vale per gli sceneggiatori: più sono motivati e più hanno interesse a lavorare dando il 100%.

E visto che alla fine stiamo parlando di soldi (ed è giusto parlare di soldi), è fondamentale capire cosa è realmente vantaggioso per i propri associati (che si parli di attori, sceneggiatori o registi, che siano negli Stati Uniti, in Italia o in qualsiasi parte del mondo), ma anche le conseguenze di alcune cose, che oggettivamente sarebbero dei miglioramenti, ma che possono portare a effetti collaterali indesiderati.

Per esempio, sento parlare solo di aumento dei residuals, partendo dall’idea che è oggettivamente una cosa positiva per gli sceneggiatori. Sì, ma se ci fossero conseguenze negative? Nella newsletter di Entertainment Strategy Guy, si faceva presente che il modello dello streaming è sostanzialmente questo:

Spiego meglio il grafico sopra. L’asse delle ascisse indica il numero di serie (sempre crescente), l’asse delle ordinate indica il loro successo (più in alto si sta, meglio ha funzionato quel prodotto). Per il modello dello streaming, per le serie (ma anche i film) di successo, a perderci sono i creatori di quel successo (perché non parteciperanno ai profitti, è l’area colorata indicata con ‘talent loss’); per tutti i prodotti sotto una certa soglia di risultati, a perderci è lo streamer (dove vedete ‘streamer loss’), sia per quello che ha già pagato come premium fee che quello che deve pagare di residuals. Per un certo numero di prodotti, invece c’è un equilibrio (più o meno), in cui sostanzialmente non perde nessuno.

Cosa succede a tutti quei prodotti (la maggioranza) che sono sotto la soglia e sono uno ‘streamer loss’? Beh, che a un certo punto per la piattaforma è più conveniente togliere quel prodotto dalla programmazione piuttosto che pagarne i residuals (e magari avere anche una serie di sconti fiscali per aver ‘rottamato’ delle proprietà). E non è assolutamente un’ipotesi teorica, è esattamente quello che ha fatto David Zaslav in America (seguito poi da quasi tutti gli altri), preferendo rinunciare a prodotti come Westworld piuttosto che tenerli su HBO Max e anche cancellando la stagione successiva, nonostante ci fossero alcuni attori con contratti pay or play (e che quindi sono stati pagati senza neanche dover lavorare). Insomma, la diminuzione di costi porta a queste scelte, apparentemente folli (vedi anche la cancellazione di Batgirl), ma che intanto portano risultati.

E’ proprio così che il settore Direct to consumer di Warner Bros. Discovery per la prima volta ha fatto segnare un trimestre in attivo due settimane fa. E state tranquilli che molte piattaforme seguiranno ancora più a fondo la lezione di Zaslav (che, lo ricordo, ha detto che il 60% dei prodotti su HBO Max non vengono assolutamente visti, giusto per capirci). Insomma, nonostante il mito della coda lunga, non è vero che per una piattaforma ha così grande valore avere un prodotto a vita se quel prodotto viene visto pochissimo. La coda lunga, termine che viene spesso utilizzato per parlare della ricchezza di contenuti delle piattaforme, è in realtà un discorso diverso, fatto magari per prodotti fisici (ma vale il discorso anche per alcune versioni digitali, penso ai libri) a disposizione di una realtà come Amazon e ognuno dei quali ha un costo. Insomma, all’interno di un’offerta in abbonamento “all you can eat”, un contenuto che non è forte rischia seriamente di non avere valore e di scomparire, soprattutto se si ritrova assieme ad altri migliaia (o decine di migliaia).

Ora, cosa succede se i residuals aumentano? Lo vediamo nel secondo grafico:

Come è evidente, aumenterebbero i costi e quindi le serie che non stanno in punto di equilibrio, ma si trovano a essere una perdita per lo streamer. E quindi, aumentano i prodotti che la piattaforma avrebbe interesse a togliere anche solo per risparmiare il pagamento dei residuals.

Ora, io non sostengo assolutamente che gli sceneggiatori (americani, italiani o mondiali) debbano rinunciare a un diritto come questo. Ma è ovvio che riflettere sulle conseguenze è fondamentale, anche solo per fare trattative efficaci (francamente, non sarebbe una gran concessione delle piattaforme aumentare i residuals, se poi si aumenteranno anche i prodotti cancellati, scelta che risolve facilmente il costo aggiuntivo da pagare e anzi lo elimina completamente).

Non sono sicurissimo che in Italia si stia affrontando questo discorso e le sue gravi conseguenze, visto che è oggettivamente un danno per i suoi creatori che una produzione non sia più disponibile. Pensiamo per esempio a dei produttori che vogliono vedere quell’opera per valutare un possibile incarico per quello sceneggiatore e non la trovano più da nessuna parte. Oltre ovviamente al pubblico, che non potrà magari vedere quella serie o film.

Si sta negoziando, per esempio, il fatto che uno streamer debba continuare a proporre un contenuto qualsiasi siano i risultati che fa e/o lasciarlo in licenza (a prezzi ragionevoli) a qualche altre realtà (per esempio, servizi FAST)? Sinceramente, non lo so, ma temo di no (chi ha maggiori informazioni in merito, può scrivermi, sarebbe utilissimo). E, più in generale, nessuno sembra troppo interessato alla destinazione dei prodotti e al fatto che farebbe bene a tutti che girassero di più, anche in servizi FAST.

Altro punto interessante, che non mi sembra ancora molto diffuso nel nostro Paese. Paramount+ ha iniziato la sua avventura italiana con due serie (Circeo e Corpo libero) che erano già in preparazione come produzioni Rai (e quindi, con un budget che la piattaforma ha coperto solo in parte minoritaria). Al di là dei risultati di ascolto, che non conosciamo, non è una formula che sarebbe utile a molti per ridurre i costi e aumentare la visibilità dei prodotti? Perché la formula delle piattaforme italiane (Netflix esclusa), ossia “budget molto alti e pubblico potenziale limitatissimo”, è ovvio che non può funzionare e andare avanti a lungo (e i tagli già stanno avvenendo).

Ma qual è il vero punto fondamentale del discorso? Per anni abbiamo detto che “Content is King”, ma poi la realtà ci dice che c’è talmente tanto contenuto in giro, che sì, ci sono contenuti ‘king’ (e magari showrunner giustamente strapagati come Taylor Sheridan – please, leggetevi l’articolo del Wall Street Journal – o Shonda Rhimes), ma anche tanti contenuti di scarsissimo valore economico per i risultati di audience (e di abbonamenti) che portano, che è meglio eliminare dai propri servizi i contenuti propri piuttosto che tenerli (sembra una follia, ma poi in realtà è così). A scanso di equivoci, non sto dicendo che siano tutti brutti prodotti (anzi!), ma dal punto di vista di un CEO che deve tagliare i costi, la scelta è facile.

In questo senso, è da segnalare il caso Warner Bros. Discovery, che nell’ultima trimestrale ha fatto segnare un utile nel comparto Direct to Consumer (insomma, lo streaming), con grossi tagli ai contenuti, visto che i ricavi sono diminuiti rispetto alla precedente trimestrale. D’altronde, David Zaslav non si era fatto problemi a buttare nella spazzatura prodotti già finiti (Batgirl) o eliminando dalla piattaforma prodotti che venivano visti da quattro gatti e costavano di residuals (poco, ma sempre più di quello che portavano quattro gatti). Insomma, visto che aumentare sensibilmente i ricavi per tutte le piattaforme (Netflix compresa!) è difficilissimo, ridurre le spese è l’unica opzione efficace ed è proprio quello che sta avvenendo.

A questo punto, conviene anche analizzare qualche problema oggettivo della produzione italiana (che non dipende dagli sceneggiatori, ma che non mi sembra venga affrontato troppo da nessuna categoria). Intanto, se c’è stata una bolla delle produzioni e dei budget, c’è stata una bolla enorme delle serie prestige. Ricordo qualche budget grazie a questo grafico:

Rispetto a quando avevo fatto questo grafico, sono usciti i budget di prodotti come Django (43,3 milioni) e M. – Il figlio del secolo (49,3M). E’ evidente che investire tali somme in prodotti per un pubblico d’elite significa rischiare grosso. Sì, lo so, la vulgata è che “ci sono tante serie italiane che funzionano bene all’estero”. Peccato che nessuno fornisca i dati di questi successi. Per esempio, ai seguenti link trovate i numeri di The Young Pope e The New Pope su HBO.

Insomma, The Young Pope inizia con quasi un milione di spettatori e si conclude con meno di 500.000. The New Pope è invece stabile intorno a una cifra molto inferiore, 200.000. Insomma, interesse iniziale forte, ma scemato molto. Qui invece i dati di We are Who We Are, già di base un prodotto dal pubblico molto limitato e che ha fatto segnare una media decisamente sotto i 100.000 spettatori.

Ora, è utile ricordarlo, già il fatto che questi prodotti siano su HBO (e coprodotti da questa realtà) è un fattore importante e da considerare. Però, in generale, non è facile trovare tante prove che i prodotti prestige italiani stiano funzionando bene all’estero (e, anzi, temo che i risultati segnalati sopra siano anche moderatamente positivi, rispetto a quelli di altri prodotti di cui non ci sono informazioni pubbliche). Paradossalmente, è più facile che i successi arrivino da prodotti popolari Rai e non solo in patria. Penso a due serie come Doc – Nelle tue mani e Rocco Schiavone, finite in prima serata rispettivamente sulla tv pubblica francese e tedesca.

Il problema è che ormai tutto il mondo realizza prodotti audiovisivi di valore e la concorrenza è fortissima. Ergo, detto che rivendicare i propri diritti è sacrosanto, per poi quantificare quanto valgono economicamente è il caso di ricordarci che su Netflix stiamo perdendo lo scontro con altri Paesi (non solo la Spagna e la Francia, ma anche Paesi come Messico, Polonia, Turchia, Danimarca, Germania) per i risultati di film e serie. Questo è grave.

Lo ripeto ormai da più di un anno: i budget complessivi delle piattaforme in Italia molto probabilmente diminuiranno rispetto ai volumi a cui siamo stati abituati. A quel punto, tutta la filiera (a cominciare dai produttori indipendenti) cosa otterrà dalle piattaforme? Lo stesso numero di serie con budget medi inferiori al passato? Meno serie con budget in linea con il passato? Una via di mezzo? Ancora. In questi anni, sono aumentate le persone fisiche che hanno lavorato a produzioni cinematografiche e televisive (tanto che spesso si è parlato di “piena occupazione”). Ora, se il mio scenario è ragionevole, si dovrà ragionare in certi casi (come nell’ambito degli sceneggiatori) se si vuole mantenere lo stesso numero di persone a lavorare (ognuna delle quali però probabilmente guadagnerà mediamente di meno) o se invece diminuirà il numero di persone coinvolte. I risultati di queste trattative saranno anche fondamentali per i livelli di occupazioni di tutti (regista, attori, sceneggiatori e troupe), che temo possano calare.

Altro discorso interessante: su cosa stanno puntando attualmente gli streamer e cosa sta funzionando a livello di film? Beh, chiaramente su Netflix si sta lavorando molto con i titoli di catalogo e stanno funzionando bene.

Negli Stati Uniti, per esempio, nella settimana 1-7 maggio, 9 su 10 titoli che sono entrati nella top ten di quel periodo non erano produzioni originali Netflix, con in testa Non così vicino e Pitch Perfect. E’ sicuramente un dato alto e che non è in linea con quanto accade di solito, ma comunque tocca ricordare che nelle quattro settimane precedenti, dei 40 titoli presenti nella top ten, ben 27 prodotti non erano Original (quindi, più di due terzi), con almeno sei film di catalogo presenti ogni settimana (e, in un caso, ben 8, in un altro caso 7). Insomma, questa ormai è la norma, nel Paese più importante per Netflix, non solo perché comprende circa il 30% dei suoi abbonati, ma anche perché è quello che porta i ricavi maggiori per abbonato.

In Italia, negli ultimi mesi sono finiti nelle top ten nazionali di Netflix film non Original come I migliori giorni, Con tutto il cuore, Mollo tutto e apro un chiringuito, Belli ciao, Io sono l’abisso, Sette donne e un mistero, Una notte da dottore, Io tu noi Lucio, Benvenuti in casa Esposito, Il ladro di giorni e Non essere cattivo (questi ultimi due rispettivamente del 2019 e del 2015!). Prodotti che non solo non sono Original, ma che magari dopo il passaggio in sala hanno vissuto altri sfruttamenti (soprattutto Sky e Amazon, in alcuni casi anche la tv free!) prima di arrivare su Netflix Italia. E va ricordato che anche Era ora, finito per tre settimane nella classifiche mondiali, in realtà era un prodotto che originariamente doveva uscire in sala (insomma, non è una produzione originale Netflix).

Anche sul fronte della serialità, ci sono dati simili. Per esempio, Viola come il mare, una fiction Mediaset, ha funzionato meglio su Netflix di quanto abbia fatto l’Original Netflix Incastrati 2. E ovviamente non parliamo del prodotto Rai Mare fuori, che complessivamente con le due stagioni è stato presente sessanta volte nelle top ten settimanali di Netflix, quando le altre serie Original non sono riuscite ad andare oltre le cinque settimane.

Ma non è solo una questione di Netflix. Per esempio, dai miei calcoli su Amazon Italia i due film nazionali che hanno funzionato meglio in questi due anni sono il secondo episodio di Come un gatto in tangenziale e Vicini di casa, quindi due prodotti che sono usciti in maniera importante al cinema e non film acquisiti direttamente e proposti in esclusiva su Amazon senza un passaggio in sala.

Tutto questo cosa vuol dire? Semplicemente, che sta finendo un’era in cui le piattaforme puntavano ad avere prodotti tutti ‘loro’, cosa iniziata 10-15 anni fa, quando Netflix ha capito (con molta perspicacia) di dover produrre titoli in ‘casa’, perché le major avrebbero in seguito aperto delle piattaforme proprie e tenuto per sé i loro titoli. Ma ormai questo atteggiamento è profondamente cambiato, basti pensare ai recenti annunci in merito di Disney e Amazon, che venderanno senza problemi i loro prodotti ad altri streamer. Quindi la domanda (che sembra quasi retorica) è: ma perché queste piattaforme dovrebbero continuare a investire enormi somme in produzioni originali, senza poter conoscere in anticipo come verranno fuori, quando possono acquisire film e serie già fatte, con costi e rischi notevolmente minori, visto che sono già testati? Non dico neanche “temo che succederà proprio questo”, perché in realtà la frase corretta mi sembra “temo che stia già succedendo proprio questo”. E a quel punto dovremo ragionare su un volume di produzioni (e probabilmente, anche budget per i singoli prodotti) minore di quello attuale. Ma questo ormai è stato già annunciato, il problema è quanto minore e questa forza dei prodotti di catalogo/cinema è un ulteriore motivo di preoccupazione per chi vorrebbe un numero maggiore di produzioni originali.

C’è poi l’eterno problema non affrontato della serialità da piattaforma, che ormai è diventata uno standard fatto di pochi episodi a stagione. Ho spesso segnalato la sconsideratezza di questa scelta (non è un’idea particolarmente originale, lo dicono anche tanti commentatori americani), che significa per le piattaforme avere tantissimi prodotti fatti magari di 2-3 stagioni, per un totale di una trentina di episodi (quando va bene). In ogni caso, siamo sempre lontani da quei 100 episodi che erano la soglia con la quale si arrivava alla ricca syndacation. Insomma, anche per i prodotti più popolari non si genererà una ricchezza su altri sfruttamenti come capita per le varie Friends, Seinfeld, NCIS o Criminal Minds. Ed è inutile dire che una parte dei problemi di cui (giustamente) si stanno lamentando gli sceneggiatori della WGA, è ovviamente legata a queste produzioni brevi (perché ovviamente se stai sceneggiando sei puntate per una stagione ogni due anni, non vieni impegnato come quando ne facevi 24 a stagione ogni anno e ti ritrovi in situazione di grave incertezza/instabilità, non certo il massimo per chi magari deve mantenere una famiglia). Qui non è certo colpa degli sceneggiatori, ma una questione di scelte degli streamer, che, speriamo, vengano modificate. O almeno in parte, per esempio come mai anche le serie di successo continuano ad avere dieci episodi massimo, se non otto???

Ma non è solo un problema di numero di episodi a stagione, ma proprio di stagioni. Vediamo questo grafico di What’s on Netflix, che mostra quanto sia difficile per un prodotto di questa piattaforma (ma il discorso vale per tutti gli streamer) avere tante stagioni (ma anche soltanto due è complicatissimo):

E se quindi fosse proprio il modello Netflix (almeno in parte) a cozzare contro le rivendicazioni degli sceneggiatori? Se, come detto sopra, i soldi veri gli autori di una serie li facevano con un prodotto che prima passava a lungo su un network lineare e poi andava in syndacation, quanti soldi potrà fare quello sceneggiatore con una serie di otto puntate che finisce con la prima (o massimo la seconda) stagione, tutto all’interno di un OTT e che non vede altri sfruttamenti? Domanda retorica, ovviamente.

E in questo senso, cosa dobbiamo pensare del fatto che sempre più realtà (la prima, come solito, è HBO, ma lo sappiamo che su queste cose Zaslav è un precursore) stanno passando i loro prodotti dalle piattaforme SVOD a quelle FAST (o anche, semplicemente, a versioni SVOD con pubblicità, vedi il caso di Netflix e Disney+). Sarebbe interessante sapere in Italia come siamo messi in generale: i contratti che hanno firmato i produttori indipendenti comprendevano questa opzione (e quindi, non riceveranno nulla di più per questo ulteriore sfruttamento)? O invece non la comprendevano e come capitato negli Stati Uniti con alcune importanti serie del passato, Netflix ha dovuto chiudere ulteriori accordi economici (o ha evitato di farlo, presumibilmente per richieste considerate troppo esose, a torto o a ragione)? E’ un punto fondamentale per capire se ci sono ulteriori margini di guadagno per le produzioni indipendenti (e magari anche per i creatori di questi prodotti).

Insomma, ci sono tante questioni importanti in ballo e, nonostante ne abbia affrontate molte in questo articolo lunghissimo, tante altre non le ho neanche sfiorate. La speranza è che tutta l’industria italiana sia consapevole di quale sia la realtà delle cose e possa affrontarne le probabili conseguenze nel modo migliore…

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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