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E se la finissimo con le guerre dello streaming?

Gli ultimi bilanci delle società hanno chiaramente evidenziato come si spenda troppo e male per le piattaforme. E’ il momento di cambiare rotta…

Dopo questa tornata di trimestrali, in cui abbiamo visto tante major soffrire per le perdite delle loro piattaforme, penso che sia arrivato il momento di fare un ampio bilancio a puntate su tutto quello che non va nel mondo dello streaming, sia in generale come modello di business che per quanto riguarda i conti delle singole aziende.

Oggi iniziamo da qualche considerazione di base, che è fondamentale per capire perché siamo finiti in questa situazione preoccupante. Tutto questo con una premessa: lo streaming, di per sé, è il presente e il futuro dell’intrattenimento domestico, su questo non ci sono dubbi. Le mie perplessità quindi non sono tanto sullo streaming come strumento di diffusione dei contenuti, ma su come (e quanto) l’industria ci sta investendo in questo momento.

Qual è il tetto di abbonati nel mondo?
La faccio facile. Questo modello di business, almeno per come lo abbiamo visto in questi (quasi) tre anni di pandemia, poteva funzionare solo con un enorme numero di abbonati. Jason Kilar (ex CEO Warner Media) pensava che le piattaforme potessero arrivare a un miliardo di abitazioni nel mondo. Hastings e Sarandos di Netflix erano più ‘morigerati’, ma comunque convinti che si potesse raggiungere cinquecento milioni di case nel pianeta.
Dai numeri del 2022, è chiaro che, nell’immediato, non sarà semplicissimo arrivare neanche a 250 milioni (se non con l’offerta pubblicitaria… e non è detto). Certo, se tra dieci anni il PIL indiano sarà aumentato notevolmente (e quindi le possibilità economiche di centinaia di milioni di persone in quella nazione) e magari la Cina si sarà aperta ai servizi streaming stranieri, potremo fare altri discorsi. Ma siamo nel 2022 e più che pensare ai possibili miglioramenti, forse è il caso di sperare solo di non finire in una recessione nei prossimi mesi, che spingerebbe tante persone a cancellare le spese non essenziali. Insomma, la situazione attuale è stata creata soprattutto da una serie di aspettative irrealistiche…

Wall Street cattiva maestra
Un altro problema di questi anni, è stato il fatto che Wall Street ha spesso (e per troppi anni) premiato abbondantemente la crescita di alcune aziende ‘tech’, guardando solo al numero di abbonati/consumatori e non magari a parametri economici più affidabili. E non si tratta solo di Netflix, basti pensare a Uber o realtà simili.

La cosa drammatica delle ultime trimestrali, è che mettono in evidenza come non solo la crescita degli abbonati non migliori i conti (in diversi casi sono peggiorati, l’esempio supremo è Disney+), ma che anzi inseguire quell’obiettivo crea degli equivoci pericolosissimi. In effetti, è chiaro che molte realtà abbiano puntato su prezzi e offerte troppi bassi rispetto ai loro costi, con il risultato sì di aumentare gli abbonati, ma senza generare veri guadagni. Il paradosso è quindi che, mentre a logica verrebbe da pensare che “più abbonati, più profitti”, il modello che viene fuori è troppo spesso “più abbonati, meno profitti”…

Piattaforme: più costi e più churn
C’è chi lo ha spiegato meglio di quanto potrò mai fare io. Ma il modello OTT come lo conosciamo ha due problemi enormi, che lo rendono (anche nella migliore delle ipotesi e comunque tra qualche anno) meno profittevole di quanto fosse in passato la Pay Tv. Il primo problema è che ogni major (più tante aziende private, tra cui Netflix, Amazon e Apple) che ha aperto la sua piattaforma,avrà dei costi fissi di gestione importanti, che invece, nel modello precedente della pay tv, erano gestiti da singole realtà, che aggregavano diversi ‘editori’ televisivi e che potevano fare ottime economie di scala. Qui c’è poco da fare: avete voluto gestire direttamente gli abbonati (e i loro dati)? Vi beccate anche dei costi notevoli.

Il secondo problema è forse anche più importante: a queste condizioni, per cui abbandonare (temporaneamente o definitivamente) un servizio è semplicissimo, è evidente che il tasso di churn sia a livelli molto più alti di quello che capitava con la Pay Tv. Tutto questo genera anche dei grossi interrogativi sulle strategie di acquisizione abbonati: perché fare loro delle offerte scontate per attirarli, se quando il prezzo torna alla normalità possono andarsene facilmente? Ma per approfondire le incongruenze tra costi, prezzi degli abbonamenti e quantità di prodotti realizzati, meglio dedicare un paragrafo a…

… Che futuro si sta costruendo?
In una delle sue ultime newsletter, David Poland si concentrava su un problema (a suo avviso) che riguarda la Disney (ma io direi qualsiasi piattaforma il cui nome non inizia con “Net….”). Nonostante i costi enormi per la realizzazione dei contenuti da parte di questa società (sopra i 30 miliardi di dollari all’anno, anche se questa cifra non riguarda solo lo streaming, ma anche tutti i prodotti per gli altri sfruttamenti, compresi theatrical e televisione lineare), Disney secondo Poland non sta producendo un numero di contenuti sufficiente per la sua crescita. Il giornalista parla di ‘solo’ 283 nuovi episodi (tra prodotti drama, commedia e animazione) finiti su Disney+ nei tre anni di esistenza della piattaforma. La ragione è semplice: si realizzano spesso prodotti molto costosi (pensiamo solo alle serie Marvel e Star Wars), ma magari si tratta di stagioni di sei episodi (al massimo, si arriva a dieci). E questa carenza di (ore di) prodotti, porta poi a spostare film cinema direttamente sulla piattaforma, creando un danno per tutto il theatrical.

Qui mi chiedo: che investimento è per il futuro? Se un giorno le piattaforme decidessero di utilizzare i loro contenuti anche per altri sfruttamenti (per esempio, un servizio AVOD – quindi gratuito – o una vendita a una televisione free), con cosa si ritroveranno in mano? Certo, i sedici episodi di The Mandalorian o i 34 di Stranger Things sarebbero richiestissimi. Ma comunque, a livello di ore di prodotto e di quanto tempo possono intrattenere il pubblico, non sono minimamente paragonabili alle oltre 400 puntate di Grey’s Anatomy e alle quasi 450 di NCIS – Unità anticrimine, solo per fare due esempi di grande successo. Qui temo che nei prossimi anni ci saranno molti rimpianti sull’adesione al modello “produciamo poche puntate, ma costosissime”…

Ma il pubblico in questi anni ha aumentato il consumo di audiovisivo?
Partiamo da questo grafico, che mostra il numero di serie prodotte solo negli Stati Uniti nel corso degli anni:

Come si può vedere, si passa dalle 210 serie del 2009 alle 559 del 2021. Per onestà intellettuale, va detto che magari le serie prodotte in questi ultimi anni, come scritto poche righe sopra, sono composte di un numero limitato di puntate. Ma, d’altronde, possono comunque essere ad alto budget e quindi l’aumento di costi produttivi rispetto al 2009 è evidente. A fronte di questo aumento dell’offerta, è aumentata proporzionalmente anche la domanda? Decisamente no, come ci dice Michela Casula di Ergo Research:

“La torta dei consumi video è cresciuta pochissimo negli ultimi anni e le ricostruzioni soggettive degli spettatori valorizzano sempre più la quota dei consumi on demand, a detrimento della TV lineare (almeno in termini di fruizione “ad attenzionalità alta”). I consumi de-linearizzati non riguardano peraltro i soli servizi SVOD (“alla Netflix”) ma vedono quote importanti allocate sull’offerta di tipo BVOD (“alla Rai Play”) e sui video web nativi (user generated e non). Insomma, lo scenario è molto frammentato e, nonostante la moltiplicazione degli sforzi produttivi, intercettare quote di domanda del pubblico è sempre più difficile”.

Quindi, se pensavate che, di fronte a un aumento dell’offerta quasi triplicato corrisponda un analogo aumento della domanda, siete in errore. Anzi, si potrebbe riflettere se i tanti user generated content (alcuni dei quali comunque molto professionali) non tolgano spazio ai prodotti ad “alto livello produttivo” e se magari, rispetto a 20 anni fa, il tempo di visione di contenuti ‘classici’ (insomma, realizzati con costi industriali importanti) non sia addirittura diminuito. A queste condizioni, i conti sono semplici da fare: ci sono molti più prodotti, che si dividono sostanzialmente lo stesso tempo/torta totale di prima, quindi mediamente vengono visti molto di meno dei contenuti di 10 o 20 anni fa. Come si fa in queste condizioni a far quadrare i conti? Bella domanda…

Perché le piattaforme puntano ancora ad avere tutti i diritti?
I produttori hanno sempre la stessa convenienza di prima a fare prodotti efficaci, dopo aver ceduto tutti i diritti? E analogamente, le piattaforme che pagano un prezzo ‘premium’ (con fee per ottenere tutti i diritti che variano tra il 15 e il 30% del budget) per tutti i prodotti (anche quelli – la maggioranza – che non andranno bene) hanno veramente interesse a utilizzare questi film e serie solo all’interno di una piattaforma?

La risposta alla prima domanda è banalissima: no, i produttori non hanno interesse – una volta definito l’accordo – a spendere un euro in più di quello che è stato stabilito nel budget. Un tempo avrebbero potuto investire nella qualità (e in costi supplementari, per esempio in un prolungamento di riprese per perfezionare il film/la serie a cui stanno lavorando), adesso non conviene, perché tanto non beneficeranno di un eventuale maggiore successo. Il che significa che non verranno fuori i migliori prodotti possibili, commercialmente e artisticamente parlando. E, come stiamo vedendo chiaramente in Italia, meglio produrre il più possibile, qualsiasi cosa sia, che puntare sulla qualità (commerciale e artistica).

Per rispondere alla seconda domanda (che a me genera una risposta ovvia, ma meglio sentire chi su queste cose prende decisioni ad altissimo livello), abbiamo due dichiarazioni sul fronte Warner Bros. Discovery. A fine settembre, il CFO di Warner Bros Discovery Gunnar Wiedenfels ha spiegato le ragioni per cui la trilogia de Il Signore degli Anelli firmata Peter Jackson, di proprietà Warner, sia finita nel catalogo di Amazon Prime Video:

“Abbiamo una gran quantità di contenuti che stanno fermi solo per ragioni di principio. Il Signore degli anelli è un esempio perfetto: si tratta di una finestra non esclusiva e noi guardiamo a questo prodotto riflettendo su quello che stiamo cedendo rispetto ai ricavi aggiuntivi che vengono generati”.

Due settimane fa, David Zaslav, tra le tante dichiarazioni interessanti fornite nella call agli azionisti, ha dichiarato che l’azienda sta lavorando a un servizio Avod (quindi, gratuito) dove inserire dei contenuti Warner e Discovery. E’ chiaro che non saranno i contenuti più richiesti dai consumatori, ma comunque il gratuito è sempre un’ottima leva, come insegna il caso di Pluto Tv. E nulla vieta di realizzare operazioni che ‘lanciano’ il servizio a pagamento. Per esempio, faccio per dire, mostrare gratuitamente la prima stagione de Il trono di spade (con pubblicità), per poi indirizzare verso l’abbonamento tutti quelli che vogliono vedere le successive…

E a proposito di dichiarazioni…
… confrontate queste due:

“Credo che l’esperimento di inseguire gli abbonati a ogni costo sia terminato. Abbiamo imparato cosa non funziona: i film che vanno direttamente in streaming, così come far collassare la window theatrical per favorire i servizi streaming. I film che facciamo uscire al cinema stanno andando sempre meglio, mentre lanciare un film di due ore e quaranta direttamente in streaming non ha portato nulla a HBO Max in termini di visioni, tasso di mantenimento del cliente o amore per il servizio”.

(David Zaslav, CEO Warner Bros. Discovery).

A chi invece chiedeva se ci si può aspettare un ritorno ai livelli consueti per i film theatrical, Bob Chapek (CEO Disney) rispondeva qualche giorno fa:

“E’ difficile fornire una risposta, ma da quello che vediamo, i grandi film evento sono sicuramente tornati. […] Per gli altri generi, è più dura. E la risposta alla domanda ‘torneranno a un livello significativo?’, la vedremo in futuro, ed è per questo che una delle nostre strategie di distribuzione è sempre la flessibilità. Se tornano, saremo molto felici di riportare questi titoli al cinema, perché abbiamo una lunga storia di successo nel generare più flussi di entrate. In caso contrario, la buona notizia è che ora abbiamo una grande realtà streaming, dove possiamo reindirizzare quei contenuti”.

E’ evidente che si scontrano due visioni business completamente diverse. Per Zaslav, non c’è modo di sostituire la vecchia catena di guadagni (fatta di tanti sfruttamenti) con un utilizzo dei prodotti (soprattutto film cinema) in esclusiva sulla piattaforma. Per Chapek, invece, è chiaro che certi film che dovrebbero andare al cinema hanno comunque l’alternativa di finire sul servizio streaming e non sembra ci sia un grande problema se questo dovesse succedere.

Io penso che uno degli errori con cui valutiamo i conti dello streaming, è di pensarli come se fossero un ‘universo a parte’, per cui si parla spesso di quanto le piattaforme raggiungeranno la ‘profittabilità’. E’ un errore che faccio anch’io ogni tanto, ma è sbagliato. Non si tratta solo (‘solo’ si fa per dire, viste certe perdite trimestrali) di avere un EBITDA positivo a fine trimestre nel comparto ‘Direct to Consumer’, perché in realtà dovremmo anche chiederci: quanto quella piattaforma ha inciso (negativamente) sulle entrate del theatrical? E dell’home video? E i mancati guadagni dalla televisione free? Ovviamente, questo discorso vale per le major che per decenni hanno ottenuti grandi profitti dal theatrical, non dalle realtà nuove (Netflix, Amazon, Apple) che non hanno mai puntato realmente sulle sale. Se ragionassimo così, sarebbe veramente difficile pensare a maggiori entrate, anzi meglio accettare che le entrate complessive per ogni prodotto saranno minori di un tempo…

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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