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Si è conclusa l’era delle produzioni infinite?

Diversi segnali che arrivano dagli Stati Uniti fanno capire che l’epoca delle spese folli e delle produzioni infinite sta volgendo al termine. Ma in Italia lo abbiamo capito?

I segnali sono tanti e, in questo senso, specifico subito una cosa. Sarebbe facile prendere solo le notizie che vanno in una certa direzione e – da quelle – dedurne che da oggi tutto cambierà da un giorno all’altro. In realtà, il passaggio sarà magari più graduale, ma non facciamoci illusioni: ormai la direzione è tracciata.

Oggi, Lucas Shaw nella sua newsletter Screentime, intitolata appropriatamente “The age of peak TV is ending. An age of austerity is beginning”, elenca alcune notizie importanti e sicuramente significative (assieme ad altre, sinceramente, un po’ più aneddotiche, come lo stipendio annuale di un regista televisivo). Ma si parla di film a budget medio annullati, i budget della tv lineare che sono calati di più del 30% e alcune informazioni su particolari serie che si sarebbero dovute fare, come quella di Peacock basata su L’uomo dei sogni e Demimonde di J.J. Abrams per HBO Max, e che invece sono state annullate.

Un agente citato da Shaw dice testualmente “Non ho mai visto così tante serie cancellate” (anche qui, non è proprio un parere scientifico e supportato da dati precisi, ma in ogni caso non sembra campato in aria). E viene citato il dirigente di FX John Landgraf, che già nel 2016 segnalava come ci fosse un eccesso di prodotto.

In effetti, negli ultimi anni tanti hanno confuso un indubbio interesse del pubblico per la serialità e sicuramente un maggior consumo medio da parte dello spettatore comune (non solo di noi addetti ai lavori), con l’idea che fosse necessario realizzare un numero mostruoso di prodotti (che neanche i professionisti del settore riescono minimamente a seguire e stiamo parlando solo di serialità statunitense, mentre nel resto del mondo c’è un analogo boom di lavori interessanti).

Questo ha anche portato diverse società di produzione (Shaw cita quelle di Reese Witherspoon e Lebron James, ma l’elenco è decisamente lungo) a essere acquistate in base non tanto al loro valore effettivo, quanto al ‘valore’ dei proprietari (e, aggiungo io, anche grazie alle aspettative di crescita di tutto il settore, che però erano decisamente gonfiate da uno straordinario – e irripetibile – momento storico).

Se dovessi segnalare un nome solo che è alla base del cambiamento che sta avendo luogo, è facile citare David Zaslav, da qualche mese CEO della nuova realtà Warner Bros. Discovery. Le sue scelte non sono sorprendenti, visto che sono state annunciate da tempo ed erano all’insegna della profittabilità rispetto alla crescita degli abbonati a tutti i costi.

Solo ieri, Variety ha rivelato che HBO Max non produrrà più prodotti originali per i Paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia), l’Europa centrale, Olanda e Turchia. Inoltre, alcuni prodotti già esistenti verranno rimossi dalla piattaforma per chiudere accordi con altre realtà che potranno trasmetterli. Verranno invece portate avanti produzioni già esistenti e legate a questi Paesi, ma che potrebbero poi non andare esclusivamente su HBO Max.

Sarebbe facile sottovalutare questa mossa, pensando magari che si tratti di nazioni ‘minori’ (d’altronde, per ora non ci sono cambiamenti ai piani produttivi in Spagna e in Francia, Paese quest’ultimo dove comunque HBO Max non è ancora stata lanciata). Ma l’idea alla base è una rivoluzione copernicana rispetto alla tendenza di questi anni. “Bisogna produrre tanti contenuti originali per conquistare gli abbonati” e “I contenuti di una società devono stare solo sulla piattaforma della stessa società”, sono stati un mantra ricorrente, che tanti analisti e giornalisti hanno salutato con una fede assoluta e cieca. No, adesso i contenuti devono e possono guadagnare da tante fonti diverse, non necessariamente legate all’azienda che li produce (e, di sicuro, non solo dallo streaming, considerando che la tv via cavo e lineare, per quanto in flessione, porta ancora ricavi importanti).

Certo, si potrà dire che l’esigenza della nuova WBD di risparmiare e di ridurre gli ingenti debiti provocati dalla fusione (55 miliardi) sia al cuore di queste scelta. Ma la realtà è che – in generale – tutti quelli che hanno investito pesantemente nello streaming si sono indebitati e hanno gravato i loro bilanci con spese che, negli ultimi mesi, Wall Street ha punito. E che quindi la strada della profittabilità dovrà essere presa in tempi relativamente rapidi un po’ da tutti.

Come dicevo all’inizio, questo non significa che da domani si smetterà di produrre. Molti accordi sono stati siglati e nei prossimi mesi si continuerà a realizzare tantissimo prodotto. Ma la strada è chiara e anche Netflix sta lentamente procedendo in questa direzione (si veda l’annuncio il mese scorso dello stop alle produzioni danesi, magari anche dettato da situazioni speciali in questo Paese, ma comunque significativo). Si produrrà sicuramente di meno, non sono sicurissimo che aumenterà la qualità, ma di sicuro si ridurranno gli investimenti totali.

E ora mi chiedo, in Italia abbiamo capito cosa sta succedendo? Perché a leggere non solo certe cronache giornalistiche (che raccontano di un mondo del passato), ma anche la fiducia incrollabile di tanti addetti ai lavori, sembra che non sia cambiato nulla, anzi. Io invece consiglierei di iniziare a prepararsi. Abbiamo preparato piani industriali privati e fortissimi sostegni pubblici sulla base di una crescita produttiva infinita, un’età dell’oro che ci avrebbe resi tutti ricchi e che avrebbe dato lavoro eterno all’intero settore? Ecco, adesso forse conviene pensare al piano B. E in fretta…

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.
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