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I problemi dei David di Donatello sono quelli del cinema italiano

La cerimonia dei David di Donatello ieri ci ha ricordato quante cose dovrebbero cambiare nel nostro cinema. E quanto è difficile essere ottimisti…

Premessa: questo non è un articolo sullo stile “ha vinto tizio, ma avrebbe dovuto vincere caio”. Non è questa l’intenzione (e, peraltro, le scelte mi sono sembrate quasi sempre ragionevoli, al di là dei gusti personali che sono ovviamente soggettivi), ma cercare di capire meglio come funziona (e, soprattutto, come non funziona) il maggior premio cinematografico italiano.

Iniziamo dalle basi: per il pubblico televisivo, funziona la cerimonia su Rai Uno? A vedere gli ultimi ascolti, non tantissimo. Al momento, non sappiamo ancora come è andata questa edizione (per un problema tecnico, i dati dovrebbero uscire nel pomeriggio), ma le ultime esperienze non sono state esaltanti. Nel 2021 sono stati 2.525.000 spettatori e l’11,6%, nel 2020 2.040.000 spettatori e l’8,4%, nel 2019 2.975.000 spettatori e il 15%, mentre nel 2018 3.012.000 spettatori e il 14,3%. Va detto che nel 2020 e 2021 le condizioni con cui si è realizzata la cerimonia erano proibitive e sicuramente penalizzanti. Proprio per questo, i risultati di quest’anno sono fondamentali per capire dove stiamo andando e se almeno si può tornare sui dati prepandemia (comunque bassi per una prima serata Rai Uno, ma non così deprimenti). UPDATE: la serata ha conquistato 2.428.000 spettatori e il 14,7%, quindi come numero di spettatori si è fatto peggio del 2021 e invece il miglioramento di share è dovuto in parte (direi circa un 1%) a un cambiamento tecnico nel modo in cui vengono rilevati i dati rispetto al passato (qui se volete maggiori informazioni in merito).

Vediamo allora qualche problema:

– Si è celebrato il fatto che la cerimonia in diretta non esclude i premi di alcune maestranze, come capitato invece recentemente agli Oscar. Personalmente, su questo ho cambiato idea. Prima, ero convinto che si sarebbe potuto rendere la cerimonia più stimolante e ‘intensa’ (meglio, ‘rapida’) togliendo qualche categoria dalla diretta. In realtà, mi ero sbagliato. Il problema non è certo far parlare un truccatore o un effettista, se poi tanto tutti i discorsi di ringraziamento hanno una tematica comune: sono un elenco di familiari e collaboratori, senza un messaggio più ampio e che rimanga impresso. Se da un tecnico non posso pretendere grandi ‘speech’ (non è il suo lavoro), da uno sceneggiatore, attore o regista invece li esigo, nel momento che loro dovrebbero essere più abituati a usare le parole e a fronteggiare una platea. Quindi, il problema non sono certo i tecnici ‘sconosciuti’ al grande pubblico, ma sinceramente che quasi nessuno abbia qualcosa da dire che vada oltre la ristretta cerchia di amici e familiari. Veramente pensate che una platea televisiva possa reggere questi discorsi? Ma non si può pretendere da tutti i candidati una preparazione maggiore (o anche, sono portato ad accontentarmi di poco, di saper utilizzare bene un microfono?)? E no, chiedere continuamente i nomi dei figli dei premiati non aiuta la cerimonia a diventare accattivante e nazionalpopolare.

– Si parla tanto nella cerimonia del prestigio e del valore del cinema italiano. E’ interessante vedere quante volte questo concetto è stato ribadito. E’ un segnale di forza o di debolezza? Io temo la seconda ipotesi. D’altronde, vi è mai capitato di sentir dire ripetutamente da un dirigente sportivo che il calcio è lo sport più importante in Italia? No, perché sarebbe pleonastico. E, francamente, è buffo come si passi agevolmente dalla grande tradizione del cinema italiano di più di 50-60 anni fa (ma se continuiamo a doverli ricordare, forse non è un bel messaggio agli autori del presente) a celebrare Umberto Tozzi perché un suo brano è presente in una scena con Leonardo DiCaprio (?!?). Temo che il termine giusto sia ‘provincialismo‘.

– Discorso Netflix. Ha appena vinto i premi più importanti (film e regia) con una sua produzione, ma se non fosse per un ringraziamento frettoloso (e frutto di una dimenticanza precedente) di Sorrentino, potremmo dire che non l’ha ricordata nessuno. Eppure, rappresenta un caso molto interessante, al di là della vittoria in sé. In una produzione italica di questi ultimi due anni in cui i contributi statali hanno assunto un ruolo enorme, E’ stata la mano di Dio è stato realizzato con un budget ingente (da quello che so), ma senza tax credit e altri contributi nazionali. Eppure, sarebbe bastato a Netflix fare come fanno tanti produttori che i contributi li prendono, ossia far uscire il film come evento di tre giorni, quindi favorendo il consumo di questo prodotto sulla piattaforma e risparmiando un bel gruzzoletto. E’ buffo come da mesi stiamo facendo polemica con un’azienda straniera che non rivela i dati Cinetel, ma nessuno si arrabbia neanche un decimo con chi prende milioni di euro pubblici per prodotti ‘cinema’ e poi arriva in sala per tre giorni di sfuggita…

– Nella categoria miglior attrice protagonista, due candidate (Swamy Rotolo, che poi ha vinto, e Rosa Palasciano) vengono da due titoli (rispettivamente A Chiara e Giulia) che hanno ottenuto 162.000 euro totali complessivi. Le altre tre (Miriam Leone, Aurora Giovinazzo e Maria Nazionale) vengono da film (Diabolik, Freaks Out e Qui rido io) che hanno ottenuto risultati economici decisamente più importanti. Peccato che in questi tre film le attrici candidate non fossero le protagoniste (magari Freaks Out possiamo considerarlo un film ‘corale’, negli altri due casi – come quasi sempre – i protagonisti sono uomini). Ora, ovviamente questo non è un problema dei David, è un problema della nostra industria. Ma anche queste candidature confermano quello che dico da anni: le donne non sono quasi mai protagoniste assolute di un film commerciale. Ah, ricordatemi: ma gli Oscar hanno la valletta? Immagino che anche questo sia ‘fondamentale’ per una cerimonia nazional-popolare…

Infine, una considerazione complessiva. Siamo portati sempre a vantare la grande ‘libertà’ del cinema italiano, che non si lascia ‘piegare’ dalle ‘mode’ politicamente corrette e che mette in grande risalto la creatività contro “l’omologazione americana”. Benissimo. Ma siamo proprio sicuri che la parola giusta sia ‘libertà’ e non magari ‘approssimazione’? Che avere totale libertà per fare una produzione largamente incentrata su protagonisti uomini 40-50enni non sia poi una gran libertà e soprattutto non sia molto efficace, così come non è una gran libertà realizzare una serata quasi completamente improvvisata e non esigere dai candidati di prepararsi un discorso? Che, insomma, i David in questo siano molto simili ai recenti risultati del cinema italiano: non importa se è un successo e funziona, tanto alla fine paga lo Stato e nessuno perde mai veramente?

Robert Bernocchi
E' stato Head of productions a Onemore Pictures e Data and Business Analyst at Cineguru.biz & BoxOffice.Ninja. In passato, responsabile marketing e acquisizioni presso Microcinema Distribuzione, marketing e acquisizioni presso MyMovies.

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