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Dal Trono di Spade alle Guerre dello Streaming e delle subscription su Cineguru Matinée #16

Niente guerre dello streaming in questo numero di Cineguru Matinée dedicato in gran parte al tema delle subscription con un intervento di Michele Casula. Prima di cominciare qualche riflessione sull’effetto di Game of Thrones sulla gente.

Buongiorno, buona domenica e ben ritrovati con questo Cineguru Matinée numero 16 che posso dichiarare definitivamente passato alla formula irregolare dopo le buone intenzioni di inizio 2019! È anche vero che il mio obiettivo con questo appuntamento era dedicarmi in particolare alle streaming wars e per quanto ogni settimana ci sarebbero dei piccoli aggiornamenti sull’argomento è dall’annuncio di Disney+ trattato nel matinée numero 15 che non succede nulla di così rilevante (OK a parte il fatto che Disney ha acquisito di fatto la totalità di Hulu) e quindi al di là della cronaca spicciola le riflessioni rischiano di essere ripetitive.

Sto pensando a una nuova formula per seguire le guerre dello streaming, mentre nel frattempo in tutta sincerità l’attenzione di queste ultime settimane è stata anche per me totalmente monopolizzata dall’uscita di Avengers: Endgame e dall’ottava stagione di Game of Thrones che si chiude questa notte.

Game of Thrones e la fine della televisione così come la conosciamo

Al di là di quella che può essere l’opinione su questa ultima stagione e quindi il mio affetto come fan, ho più volte detto quanto per me Il Trono di Spade rappresenti il momento più significativo, sia in termini di valori produttivi che di “reach” -per mutuare una metrica dal digitale- della storia della “televisione” così come la conosciamo.

Comunque sia, il prossimo fenomeno di uguale portata sarà non più un fenomeno “televisivo” ma nascerà e vivrà il suo ciclo di vita sui servizi di streaming, che poi sono nella sostanza l’evoluzione della televisione ma “basata su internet”. Da quel che ho visto potrebbe essere The Mandalorian di Disney+ a spostare l’asticella di questo nuovo standard, ma è chiaro che anche Netflix, nonostante il suo modello sia più basato sulla quantità e la segmentazione piuttosto che sulla “qualità”, potrebbe tirare fuori dal cilindro qualcosa di distintivo. Certo in questi giorni riflettevo su quanto una delle caratteristiche tipiche del prodotto Netflix, l’uscita tutta insieme delle puntate, fallisca nel creare quel fenomeno collettivo che invece una stagione (avevo scritto serie Luigi, ma mi sono corretto!) scandita con episodi a cadenza settimanale crea. In fondo a pensarci bene Avengers-Endgame chiude un ciclo durato oltre 10 anni ed è l’evento cinematografico dell’anno (almeno fino ad ora), così come Game of Thrones ne chiude uno di 8 anni, tutti e due sono dei risultati mostruosi ai rispettivi “Box Office”, sono “usciti” in contemporanea nella stessa settimana, eppure il secondo ha monopolizzato l’attenzione mediatica e soprattutto le conversazioni online per già sei settimane, quando il fenomeno Avengers alla seconda era già in calo. Certo è ovvio, quello è un film e questa è una serie, ma quando uscirà Stranger Things 3, che al momento potremmo considera l’ammiraglia di Netflix su un target parzialmente sovrapponibile a Trono di Spade, quanto durerà la discussione? Film e serie che escono tutte in blocco soffrono tutti e due dello stesso problema: bruciano rapidamente nel cuore del pubblico, magari non si spengono mai del tutto, pronte a infiammarsi all’uscita di un nuovo capitolo, ma sembrano meno capaci di tenere calda l’attenzione per lunghi periodi e bisogna vedere come questo influenza la loro capacità di sedimentare nel pubblico, di diventare memorabili.

Game of Thrones è ad oggi il punto più alto anche di un’altro fenomeno con cui autori, produttori e piattaforme dovranno confrontarsi sempre di più: gli effetti del fan service sulla gente! La petizione, che supererà mentre scrivo quasi un milione di firme (ma quanti sono nel mondo i fan della serie?), per riscrivere l’ultima stagione della serie potrebbe essere il punto che segna definitivamente quanto il pubblico sia pronto a passare a storie alla Bandersnatch dove ognuno si sceglie il proprio finale? In futuro le AI ci “renderizzeranno” in diretta le storie per farle finire come vogliamo noi? Pensa che noia! A me piace che qualcuno mi racconti una storia, la sua storia, e fantasticare magari sulle alternative, ma forse guardando all’evoluzione del pubblico bisogna pensare a come dargli, almeno l’illusione, che ognuno possa avere il finale che vuole e quindi crearne anche 14.000.605.

Su questa evoluzione (o involuzione) del pubblico c’è tanto da leggere in questi giorni, consiglio questo articolo nell’Antro Atomico del Dr. Manhattan, questo pezzo di The Onion che quando lo ho condiviso sui social qualcuno ha preso sul serio (e qui ha ragione Recchioni quando dice che la distruzione di Approdo del Re è metalinguaggio) e in caso lo smarrimento continui di contattare il telefono amico di Game of Phones come nel video qui sotto.

Gli abbonamenti sono il modello definitivo?

Ho già espresso il dubbio che il modello subscription sia adatto a sostenere il settore audiovisivo così come lo consociamo. Il maggior valore generato per chi produce dalle uscite theatrical, il premium price che si può spuntare in un mercato competitivo e non controllato da pochi canali, si traducono in maggiori risorse e motivazioni per una produzione che può così puntare ad innovare e spingere di più rispetto ad appiattirsi sul prodotto medio, ma il tema delle subscription è comunque un tema caldo e per alcuni una panacea anche per il cinema.

In Italia ne parliamo poco e soprattutto non vengono comunicati dati su come vanno le iniziative in essere, in particolare il The Space Pass dell’omonimo circuito. Negli Stati Uniti invece il modello sembra aver preso davvero piede visto che AMC ha annunciato di recente di avere 785.000 abbonati al suo A-List ticket subscription program che sono il triplo di quanti ne ha adesso Moviepass, anche se meno di un terzo del momento di massimo splendore del servizio non a caso fallimentare. Cosa ancora più interessante AMC ha aggiunto 180K abbonati nel primo trimestre del 2019, nonostante la stasi del Bocx Office, e il servizio sembra anche ormai profittevole (grazie anche all’indotto).

In mancanza di dati sulle subscription in Italia l’amico Michele Casula di Ergo Research ha voluto condividere con Cineguru il case study qui sotto, raccontato con le sue stesse parole. E con questo suo intervento vi ringrazio dell’attenzione e vi auguro che Game of Thrones finisca proprio come volevate voi.

Ero partito con l’idea di scrivere due righe sui modelli subscription applicati alle sale cinematografiche, sulle vicende di MoviePass, sulle contromosse delle catene, e sui tentativi nostrani come il The Space Pass, di cui si sa molto poco e che verosimilmente sconta i limiti del mono-circuito, in un quadro dove chi va spesso al cinema (almeno nelle aree metropolitane) è solito distribuire il “monte biglietti” su una pluralità di esercizi in funzione delle scelte di programmazione.

Avevo anche pensato di aggiungere qualche considerazione in merito al fatto che abbonamenti “alla Movie Pass”, se prospettati nei termini originari del “GO SEE IT ALL” che anche oggi campeggia nella home page della società (https://www.moviepass.com/) con sede a New York e uffici nell’Empire State Building, finiscono con l’essere considerati interessanti da numerosissimi movigoer. Anche in Italia. Non posso dire precisamente da quanti (per vincoli di riservatezza), ma posso dire che all’inizio il dato è parso inverosimilmente alto anche a me. Certo, uno potrebbe pensare: “avete sovrastimato il bacino dei prospect” (può essere) e comunque in Italia un’offerta “alla Movie Pass”, estesa a tutti i film e a tutti gli esercizi cinematografici, non esiste (vero), ed è improponibile, per tutte le implicazioni che ha in termini di definizione di un modello di business soddisfacente per tutti, dagli esercenti ai distributori al gestore del servizio (effettivamente ci scommetterei cifre molto basse).

Alla fine ho trovato più interessante parlare di un tema “laterale” scoperto recentemente con l’avvio di una collaborazione professionale con Abbonamento Musei.

Forse non tutti sanno che (nemmeno i più accaniti lettori della Settimana Enigmistica) oltre 20 anni fa, in Italia, più precisamente in Piemonte, è stato lanciato “il Netflix dei musei”; un “all you can visit” che, a fronte del pagamento di un importo annuo (ora) compreso fra i 45 ed i 52 euro, consente di accedere illimitatamente alla quasi totalità delle mostre, dei musei e dei siti archeologici del territorio.

Nel solo Abbonamento Musei Piemonte conta quasi 130k utenti attivi, che esprimono un media 8 visite-anno, per un totale (annuo) nell’intorno del milione. Avete letto bene: un milione di ingressi fra musei, mostre e siti archeologici, espressi da residenti, che prima staccavano in media la metà dei biglietti e che spesso avevano diritto a sconti anche prima di sottoscrivere l’abbonamento. In sostanza: hanno finito con lo spendere più soldi, ed hanno più che raddoppiato le visite, senza contare che queste coinvolgono spesso persone senza abbonamento e che alla singola visita si associano spese che fra caffetteria/ristorazione, audioguide, visite guidate, cataloghi e merchandising arrivano in media (in base al dichiarato) a circa 15 euro (da moltiplicare per il totale-visite/anno).

Questi dati mi hanno confermato l’impressione avuta analizzando il dato sul potenziale dei servizi “alla Movie Pass”, con molti spettatori che finivano col qualificarsi come potenziali sottoscrittori anche quando il loro pregresso (in termini di volumi di spesa e totale ingressi nell’anno precedente) era lontano dalla soglia della mera convenienza economica.

Vale la pena di evidenziare che nella sola Torino (comune), dove i maggiorenni residenti sono poco più di 750k, gli abbonati sono quasi 60k, per una penetrazione equivalente di poco inferiore all’8%. Il calcolo su base regionale (Piemonte) porta ad un comunque ragguardevole 3,5% (e lo è ancora di più se si considera che è un servizio personale, individuale, a differenza di un abbonamento a Sky o a Netflix la cui fruizione è su base famigliare).

Poco più di 3 anni fa il servizio è stato lanciato anche in Lombardia e, dopo una partenza in sordina, ha ora superato i 25k sottoscrittori e cresce a ritmi decisamente interessanti, anche in considerazione della tipologia di consumo culturale cui si associa, decisamente meno “largo” rispetto al cinema in sala.

Il modello di Abbonamento Musei prevede la retrocessione di una quota del full price alla struttura che stacca il biglietto, con una quantificazione che non sarebbe verosimilmente riproponibile in ambito cinematografico dato che in ballo ci sono anche gli interessi dei distributori, mentre (banalizzando) la struttura dei costi di un museo non cambia sei i visitatori in un dato giorno sono 10 o 100 (ma già lo scenario è diverso se si tratta di mostre).

In questa fase l’attenzione di chi scrive e attratta più da quanto accade lato consumatore, con un abbonamento relativo all’offerta museale del territorio i cui titolari hanno finito con l’esprimere circa il 20% degli ingressi, che altrove vedono un contributo decisamente inferiore da parte dei residenti. Per essere ancora più precisi: gli abbonati hanno fatto crescere la torta, ed hanno finito col rappresentare una fetta importante della stessa.

Il cinema ha esigenze analoghe: fare in modo che un ampio segmento di pubblico intensifichi in modo sostanziale la frequenza con la quale si reca nelle sale cinematografiche, immettendo nel sistema più risorse (in modo diretto ed indiretto) a beneficio di tutti gli stakeholder.

Varrebbe comunque la pena di ragionarci sopra, pur con i dovuti adattamenti in termini di modello di business e di criteri di revenue sharing, e la cosa interessante è che forse contiene più elementi inspiring quello che accade a Torino e Milano attorno ad Abbonamento Musei, di quanto non ruoti attorno alla vicenda Movie Pass, a Manhattan, sull’Empire State Building.

Michele Casula

ps: penso che i personaggi di Game of Thrones abbiano preso il sopravvento, nel cuore degli spettatori, sulla storia e vivano per ognuno di voi di vita propria nella nostra immaginazione. Ognuno vuole troppo il “suo” personalissimo finale e mentre W&B hanno avuto il coraggio da dargliene uno, magari frettoloso, nemmeno perfetto in assoluto, ma che fino al momento in cui scrivo trovo migliore di quello che avrei voluto io (ma ho il terrore per questa notte) mentre Martin non ha avuto il coraggio o l’inventiva per scriverne uno che avrebbe comunque scontentato il pubblico. Sul resto sono d’accordo con Roberto Recchioni.

Davide Dellacasa
Publisher di ScreenWeek.it, Episode39 e Managing Director del network di Blog della Brad&k Productions ama internet e il cinema e ne ha fatto il suo mestiere fin dal 1994.
http://dd.screenweek.it
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