Le guerre dello streaming riassunte in infografiche

Il futuro dell’industria cinematografica e televisiva, ovvero più in generale del modo in cui l’intrattenimento audiovisivo si traduce in un “prodotto” vendibile capace di recuperare i suoi costi di produzione e convincere qualcuno al di là della passione che è un buon modo di investire denaro, si gioca su internet e in particolar modo nella nuvola dello streaming. Una parola che fino a poco tempo fa veniva usata solo come sinonimo di pirateria. Abbiamo dovuto attendere l’arrivo di Netflix, soprattutto nel nostro paese dove tutti sembravano ignorare le altre forme di distribuzione legale, per vedere l’opportunità in simbiosi con la minaccia e cominciare a parlare seriamente dell’impatto che questa evoluzione avrà non solo sul rapporto film-sala cinematografica, ma anche “sulla televisione” che per quanto continui la sua esistenza come “elettrodomestico” è destinata più del cinema a subire le radicali trasformazioni indotte da una concorrenza che colpisce il suo palinsesto da tutte le direzioni (e le recenti notizie sulla voglia di Murdoch di smobilitare il suo impero ne sono la conferma).

Il contenuto scripted, infatti, ovvero quelle che ancora oggi continuiamo a chiamare pigramente “Serie TV”, insieme ai film che la televisione offriva ultimamente con meno attenzione, sta trovando la sua più naturale distribuzione attraverso le piattaforme on demand in streaming. L’informazione, soprattutto la commodity delle news ma in parte anche di approfondimento si sposta invece dove sta l’attenzione degli utenti e in questo momento, ovvero sui social network, Facebook in testa. L’intrattenimento “riempitivo” invece si sposta su YouTube, dove già risiede stabilmente per le generazioni più giovani, Facebook stesso e internet in generale, mentre anche lo sport troverà nei canali dedicati online e servizi in subscription una sua più consona collocazione.

Con questo probabile scenario in mente è molto interessante dare un’occhiata alle infografiche che il sito Statista ha pubblicato durante gli ultimi mesi a partire e non solo da un nutrito report sui numeri di Netflix che può essere acquistato sul loro sito.

L’infografica da cui ho deciso di partire è in netta contraddizione con il funesto destino di cui scrivevo sopra per la televisione. Soprattutto in Europa e negli Stati Uniti infatti, secondo i dati forniti da GlobalWebIndex e relativi al 2017, la maggior parte delle persone ama ancora guardare “la televisione sulla televisione” mentre solo nei paesi dell’estremo oriente i device digitali hanno nettamente preso il sopravvento.

Se però l’analisi si sposta dall’universo degli spettatori ai giovani adulti ecco che un sondaggio condotto da Pow Research negli Stati Uniti conclude affermando quanto i servizi di streaming online siano i più graditi dai giovani adulti, mentre la Tv via cavo o via satellite (quindi su abbonamento e con quei contenuti premium che più facilmente si stanno spostando sulle piattaforme di streaming) sia comunque al momento il canale distributivo preferito dalle fasce di popolazione più adulte.

La catena di annunci di questa estate, con produttori, showrunners e registi che cambiavano squadra quasi che si trattasse di un calciomercato, dimostra quanto il contenuto sia ancora importante per attirare persone su una piattaforma e possibilmente farcele restare. Si parla tanto di Netflix, ma un’altra infografica, realizzata a partire dai dati di JPMorgan questa volta, evidenzia quanto anche Amazon stia prendendo sul serio il suo servizio Amazon prime, arrivando ad investire nel 2017 4,5 miliardi di dollari in contenuto video. Certo è un 25% in meno di quanto spenderà Netflix, ma non si può dire che Amazon non stia prendendo seriamente un business rispetto al quale, tra l’altro, ha un approccio più complementare allo sfruttamento tradizionale, sia in sala che in home video fisico.

Chiaramente se si investe si ottiene il favore di pubblico e di critica e da questo punto di vista ho trovato interessante un’altra infografica che prende in considerazione le nominations e le vittorie ottenute agli Emmy Wards  dal 2013 al 2017. In particolare quest’anno Netflix si è portata a casa ben 20 premi e meglio di lei ha fatto solo HBO che con 29 premi è la realtà produttiva globale che tiene testa all’avanzata dei colossi dello streaming, con Netflix, Hulu e Amazon che insieme hanno raccolto 120 nominations.

Se il livello di investimenti è crescente e con esso la quantità e, in proporzione, qualità del contenuto prodotto quello che non è per niente ancora chiaro, al di là dell’hype generato dalla maggiore o minore capacità di comunicare di questi brand, è chi tra loro stia vincendo queste guerre dello streaming. Amazon, Netflix, e Hulu (ma come abbiamo visto anche Apple e Facebook) stanno investendo in contenuto più o meno originale; quello che ancora non è chiaro, come non è chiaro per niente quanto ad esempio vendano i film online, è chi stia ottenendo i risultati migliori.

Tra gli operatori che si propongono di analizzare l’andamento dei contenuti propositi dai servizi online e di confrontarli  con quelli tradizionali c’è ad esempio Parrot Analytics che non si basa però su dei concreti “dati di vendita” o sulle view -sempre che sia possibile conoscerle e abbiano un senso- ma su un ben più ampio concetto di total audience demand espressa online per un titolo.

La metodologia utilizzata per determinare la Global Content Demand è elaborata da Parrot Analytics attraverso un sistema di misurazione denominato Demand Measurement System realizzato da Demand Expressions®. Questo sistema di misurazione prende in considerazione una molteplicità di elementi del web, riuscendo ad elaborare delle statistiche relative a ciascun Paese. Le componenti che vengono prese in considerazione ai fini di calcolo, in una sorta di listening della rete, sono:

  • Piattaforme di video streaming
  • Social Media
  • Piattaforme di photo sharing
  • Blog e micro blog
  • Piattaforme di rating
  • Wiki e siti informativi
  • Protocolli Peer-to-peer
  • Piattaforme di file sharing

Il metodo di calcolo prende quindi in considerazione una molteplicità di fattori che nelle intenzioni della Parrot riesce a riflettere il desiderio dei consumatori nei confronti di determinati contenuti, uno stream o un download sarà una forma di interesse molto più importante di un commento o una impression, ma nell’insieme tutto contribuisce a definire l’interesse.

Una soluzione per approssimare quello che per il cinema è il box office cinematografico, per la televisione l’audience e per il mercato home-video la classifica dei DVD più venduti è sicuramente interessante, anche se è un po’ un “fare di necessità virtù” in quanto tenta di supplire con il monitoraggio delle menzioni in rete la mancanza di dati concreti dalle piattaforme che sono le uniche a poterci dire quanto e per quanto un determinato contenuto sia stato visto. In questo modo otteniamo però un dato che se da una parte permette di confrontare contenuti distribuiti su piattaforme disomogenee, dall’altro è più l’indice della popolarità di una serie che un vero indicatore di ascolti. Tanto è vero che l’infografica seguente, relativa allo scorso mese di agosto, sembra confermare quanto Netflix sia la più brava a generare buzz online ma se questo voglia dire che i suoi contenuti sono davvero i più visti è tutto da dimostrare. Analoghe classifiche durante altri momenti dell’anno hanno visto ad esempio in vetta Game of Thrones, e non c’è certo niente di strano in questo, ma quando venne data la notizia della cancellazione di Sense8 l’enorme buzz vissuto su internet non era certo un indice della sua popolarità.

Game of Thrones, che quest’anno non ha preso alcun Emmy a causa della ritardata estiva, è stata comunque la serie più vista negli Stati Uniti secondo il survey realizzato proprio da Statista, che offre sicuramente una visione del mercato meno monopolizzata da Netflix.

Continuando ad analizzare le infografiche pubblicate da questa estate ad oggi è interessante anche aprire il capitolo relativo agli apparecchi che “portano lo streming sulla televisione”, soprattutto perché è proprio passando “attraverso” questi set top boxes che un operatore poco conosciuto nel nostro paese, Roku, si sta guadagnando una posizione di primo piano tra gli operatori dello streming online. Dopo 3 anni di crescita costante già nell’aprile di questo anno la piattaforma poteva contare su una base installata di tutto rispetto, superiore a quella di Amazon, Google e Apple stessa.

Forte di un trend costante dal 2014 in avanti la società è sbarcata in borsa a fine settembre con uno degli IPO tecnologici più attesi dell’anno e il suo titolo ha continuato a crescere costantemente, facendo un grosso balzo proprio in questi giorni dopo l’annuncio degli ottimi risultati del terzo trimestre dell’anno e soprattutto la conferma dell’evoluzione del suo modello di business.

Roku ha costruito il suo successo come fabbricante di hardware per facilitare il collegamento della televisione ad internet e attraverso questa l’accesso a tutti i principali servizi di streaming, così come la Chromecast di Google, la Apple Tv e la Amazon Fire Tv Stick che è appena arrivata in Italia, ma oggi sta riuscendo a spostare i suo ricavi dall’hardware ai servizi, sia ai propri canali sostenuti da ADV sia alle fee che riceve da parte dei vari servizi cui è possibile abbonarsi attraverso la propria piattaforma. Uno spostamento dall’hardware al servizio che lo rende ad oggi un player di tutto rispetto, anche se presente solo negli Stati Uniti, non solo per numero di account attivi, ma anche, a vedere i dati più recenti, per quantità di “streaming” che passa dai suoi device.

Parlando di modelli di business ritengo che sia sempre utile, pur facendo i dovuti distinguo, guardare a cosa sta succedendo al mercato della musica dove lo streaming e soprattutto il modello subscription ha definitivamente conquistato il mondo, con una formula legata soprattutto alle fortune di un brand, Spotify, che applica un modello ibrido: sostenuto da advertising per i clienti non paganti e con un servizio premium libero da advertising per i sottoscrittori di un abbonamento mensile. La cosa interessante, comunque, è che dopo anni in cui la musica è stata martoriata dalla pirateria tutte le formule a pagamento sono in costante crescita, a dimostrazione che era forse una mancanza di offerta legale articolata a dovere il vero problema.

Non si parla quindi più di CD, ma nemmeno di MP3 e anche la radio tradizionale si sta evolvendo in qualcosa di diverso, che passa attraverso i servizi di streaming.

Come nel caso di Apple Music, che non solo sta passando da un modello sell-through a un modello subscription ma ha anche lanciato una radio planetaria rendendo accessibile tutto questo dalla sua piattaforma iTunes. Una formula che sta estendendo anche la televisione, con una meccanica simile a Disney Movies Anywhere, aggregando oltre 60 servizi TV, che hanno già i loro servizi online e le loro App,  all’interno della propria nuova Apple TV App.

La formula della subscription, la più vicina all’abbonamento alle tv via cavo o satellite, è stata la chiave di volta per l’industria musicale ed è chiaramente uno dei fattori chiave del successo di Netflix, di Amazon Prime e dei tanti player che stanno animando questo mercato. Il problema è che le risorse necessarie per la produzione di un film o di una serie di primo piano, anche solo una produzione medio piccola e meno che mai se iniziamo a parlare di blockbuster, sono ben più ingenti di quelle necessarie ad incidere un album e un singolo brano. La criticità maggiore per un servizio che si propone di acquisire o produrre contenuto da “prima visione” è trovare l’equilibrio tra il ritorno che può essere garantito dagli abbonamenti (e dal criterio di ripartizione degli introiti che ne derivano) e i costi di produzione di una grande quantità di contenuti esclusivi ed originali, gli unici in grado di spostare il pubblico da un servizio all’altro a fronte di library che, dispetti della Disney a Netflix a parte, corrono il rischio di somigliarsi tutte.

Personalmente sono convinto che il modello di Netflix non sia sostenibile nel lungo periodo, almeno con gli abbonamenti ai livelli attuali, e trovo più convincenti formule ibride come quelle di Amazon Prime che certo distribuisce sul suo servizio subscription, ma cerca il ritorno economico lungo tutta la filiera tradizionale non rinunciando alla distribuzione in sala e a quella fisica che è parte del suo core business. Sono in tanti a domandarsi quanto Netflix possa permettersi di continuare a spendere così tanto basandosi su un indebitamento che le viene concesso soprattutto in quanto unicorno dell’industria dell’intrattenimento. Da questo punto di vista il percorso prevedibile è quello di un progressivo aumento degli abbonamenti che, come ha dimostrato il recente incremento in tutti i paesi, sarà sicuramente ben digerito fino ad un certo livello e la scommessa di Netflix si basa tutta su questo. Fino ad oggi agli aumenti di abbonamento non ha mai fatto seguito un numero di cancellazione tali da fermare la crescita.

Tra qualche anno quindi Sky potrebbe non esistere più ma potrebbe essere che noi si paghi Netflix quanto oggi paghiamo Sky e da questo punto di vista ci troveremo di fronte a un caso classico in cui tutto è cambiato per non cambiare niente o, meglio, a una rivoluzione in cui la tecnologia ha semplicemente favorito, come in molti altri settori, un’azienda con il DNA digitale rispetto a qualcuno che ha tentato di adattarsi.

Chiuderei questo lungo articolo con qualche ultima infografica di curiosità. Siamo indecisi se sia o meno una rivoluzione e uno dei fattori del suo successo al di là della leva di comunicazione, ma è chiaro che il Binge Watching sia uno dei “marchi di fabbrica” del prodotto Netflix, ed ecco quindi un grafico che riassume le ragioni per cui gli americani lo preferiscono al normale rilascio settimanale delle puntate, cosa che fa innervosire i fan di tutto il mondo ora che entriamo in zona mid-season.

Un’ultima curiosità, sempre relativa al Binge Watching, riguarda la propensione a questa formula di visione tra le varie fasce di età. Ovviamente, in base a un sondaggio di YouGov, la fasce più giovani prediligerebbero questo tipo di visione a quella tradizionale. E si sa, sono loro il pubblico del futuro presente.

Davide Dellacasa: Publisher di ScreenWeek.it, Episode39 e Managing Director del network di Blog della Brad&k Productions ama internet e il cinema e ne ha fatto il suo mestiere fin dal 1994.

Brad&K Productions S.r.l. utilizza cookie di profilazione e anche di terze parti.